La morte di John McCain, dalla guerra in Vietnam alla sfida contro Trump

La morte di John McCain, dalla guerra in Vietnam alla sfida contro Trump

Loading

NEW YORK. «I vecchi soldati non muoiono mai, si dissolvono lentamente all’orizzonte».
L’immagine che venne usata dal generale Douglas MacArthur, sarebbe il commiato perfetto per il vecchio soldato John McCain, classe 1936. Salvo che lui non si è proprio “dissolto”, il suo profilo di guerriero non è svanito delicatamente nella penombra del crepuscolo finale. Ha combattuto fino all’ultimo, su tutti i fronti: la malattia e la politica. Il secondo, quasi più drammatico del primo.

Di avere ormai il tempo contato, per il tumore al cervello che gli era stato diagnosticato nel luglio 2017, McCain se n’era fatto una ragione. Non si rassegnava, invece, a Donald Trump. Non accettava di vedere in mano a quell’uomo l’America per la quale aveva rischiato la vita, e il Grand Old Party a cui aveva dedicato 36 anni di militanza.
Anche negli ultimi mesi in cui non poteva viaggiare a Washington, dal suo ranch dell’Arizona il senatore ha attaccato duramente il summit di Helsinki fra Trump e Vladimir Putin; ha criticato l’astio del suo presidente verso gli alleati europei della Nato.
McCain è sempre stato un originale, un battitore libero, un disturbatore di equilibri, un “maverick” rispetto all’establishment. Mai però avrebbe pensato che la bandiera dell’anti-establishment finisse in mano a un affarista-showman, usata per infangare le regole della democrazia e la civiltà del dibattito pubblico. Ogni volta che ha potuto, McCain si è messo di traverso a Trump. E spesso le scintille tra i due hanno rievocato la prima parte della vita del senatore dell’Arizona: la guerra.
McCain, a differenza di Trump, è stato un vero patriota. La bandiera, l’inno, per lui non furono simboli esteriori.
Veniva da una tradizione gloriosa: da quell’America di tanto tempo fa in cui anche l’élite Wasp, bianca anglosassone protestante, anche la buona borghesia, andava al fronte, rischiava la vita, moriva proprio come i figli dei poveri, come i neri e gli immigrati messicani. Nella famiglia McCain ci sono passati tutti. Il nonno e il padre furono ammiragli e a tutti e due è dedicata un cacciatorpediniere della U.S.
Navy, la Uss John S. McCain, in servizio nella Settima Flotta e di base in Giappone. Anche il terzo della stirpe, il futuro senatore repubblicano, fece l’accademia navale e si arruolò nella marina (nel 1958), ma divenne pilota di caccia sulle portaerei. Durante la guerra del Vietnam rischiò di morire una prima volta nel 1967 durante l’incendio della portaerei Forrestal. Lo stesso anno durante una missione aerea il suo caccia venne abbattuto sopra il cielo di Hanoi. Ferito, il pilota McCain fu catturato dai nordvietnamiti, torturato, e rimase loro prigioniero per sei anni. Rifiutò una liberazione veloce perché convinto che lo avrebbero usato a fini di propaganda. Per tutta la vita soffrì di patologie legate a quel periodo di prigionia. E’ a un uomo di quella tempra che Trump fece l’oltraggio più ignobile. Irritato perché il senatore dell’Arizona non gli dava il suo endorsement durante la campagna per la nomination repubblicana, nell’estate del 2016 Trump se ne uscì con quell’insulto: «McCain non è un eroe di guerra. Gli eroi sono quelli che non si fanno catturare». Un anno e mezzo dopo, il momento di regolare i conti venne quando McCain fu intervistato per un documentario sulla guerra del Vietnam. «Un aspetto di quel conflitto che non accetterò mai – disse McCain – è che arruolavamo l’America dai bassi redditi, mentre i ricchi trovavano sempre un dottore che gli diagnosticava un ossicino fuori posto».
L’affondo era diretto a Trump che per cinque volte si fece esonerare dal servizio militare negli anni del Vietnam, una delle quali proprio grazie a una minuscola e benigna “escrescenza ossea” ad un piede.
Gli scontri fra i due restano memorabili. Accettando la Liberty Medal, quando ormai lottava già da mesi col tumore al cervello, McCain fece una requisitoria implacabile contro il trumpismo: «Viviamo in un Paese fatto di ideali, non di terra e sangue». Poi una condanna di quel «nazionalismo improvvisato, raffazzonato da gente che cerca dei capri espiatori anziché cercare soluzioni ai problemi». Trump perse le staffe e gli mandò a dire: «Finora sono stato gentile, ma a un certo punto lo aggredirò, e non sarà un bello spettacolo». Secca la replica del veterano: «Si accomodi pure. Ho affrontato avversari di una certa forza in passato».
Dai nordvietnamiti al cancro.
Per uno come McCain è difficile farsi spaventare da Trump.
Gli scontri fra i due sono stati anche di sostanza. Sulla contro-riforma sanitaria, proprio il voto contrario di McCain affondò nell’estate 2017 il tentativo di Trump di cancellare Obamacare. Fedele ai suoi principi, il senatore dell’Arizona disse che mettere le mani nuovamente nel sistema sanitario, esigeva quantomeno un consenso bipartisan. Per Trump fu una disfatta grave.
Non è solo in questa fase estrema e apocalittica, di fronte alla deriva populista del suo partito, che McCain incarna la tradizione repubblicana più nobile e onesta, quella di un partito che diede all’America Abraham Lincoln e Dwight Eisenhower.
Il senatore dell’Arizona aveva cominciato a percepire la degenerazione della destra sin dai tempi di George W. Bush.
Contro Bush junior si era battuto per la nomination repubblicana nel 2000 e aveva perso a causa dei colpi bassi dell’avversario (Karl Rove, lo stratega elettorale di Bush, era un pioniere delle fake-news e mise in giro la leggenda che McCain avesse una figlia illegittima da una donna afroamericana). Poi McCain ottenne la nomination nel 2008, e perse contro Barack Obama. Ma fece una campagna da galantuomo, zittì chi voleva cavalcare il razzismo contro il candidato nero. Di Obama presidente lui fu un critico severo in politica estera: McCain era un falco e avrebbe voluto più militari americani in Medio Oriente, Siria inclusa.
Firmò una legge importante, purtroppo inutile, sul controllo dei finanziamenti delle campagne elettorali. In quanto alla politica estera di Trump, fu tra i primi a ostacolarne l’idillio con Putin.
Fino al punto da varare sanzioni contro la Russia al Congresso.

* Fonte: Federico Rampini, LA REPUBBLICA

photo: Di Jim Greenhill from Arlington and Durango, USA (070827-A-3715G-275) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons



Related Articles

IL BACIO DEL PRINCIPE

Loading

Sembrava che la bella addormentata – non si parla del film di Bellocchio ma della variegata società  araba teatro delle tanto pubblicizzate e tanto travisate «primavere» – si fosse svegliata da sola. Era questa la versione ufficiale, persino a costo di minimizzare pressioni, convenienze e intrusioni. Tornava utile a tutti esaltare quella liberazione come un prodotto autonomo e maturo del ciclo positivo innescato dal trionfo della democrazia e del mercato impersonati dall’Occidente. Persino la morte di Gheddafi, dopo il ludibrio del suo corpo, fu attribuita ai libici, sorvolando sul particolare che a centrare la sua macchina era stato un drone proveniente da Sigonella, questa Guantanamo d’Italia, e guidato a distanza da un computer sito in California.

Lo choc: non siamo la Danimarca

Loading

Schiaffo alla leadership del presidente: «Un giudizio politico»

Fiscal combat

Loading

dal secolo breve in cui lo stato doveva fare il welfare, regrediamo al XIX° secolo lungo, quello coloniale, quando lo Stato doveva fare la guerra

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment