Maurizio Landini: dalla CGIL una cultura politica alternativa che riparta dal lavoro

Maurizio Landini: dalla CGIL una cultura politica alternativa che riparta dal lavoro

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Riunificare il mondo del lavoro, mai così diviso e frantumato. Maurizio Landini, da un anno segretario confederale della CGIL, dopo sette anni alla guida dei metalmeccanici della FIOM [e dal 24 gennaio 2019 segretario generale della CGIL, ndr], non ha cambiato obiettivo. Anche nel nuovo ruolo guarda agli esempi più virtuosi – l’IG Metall tedesca – per riportare i lavoratori al centro della discussione in Italia, in Europa e nel mondo. Il sindacato, dice, deve avere un progetto di trasformazione, un’idea di giustizia sociale e di uguaglianza, attorno alla quale chiedere consenso e ottenere partecipazione e per la quale organizzare e organizzarsi. E saper essere propositivo. Ad esempio, anticipa Landini, sarà proposta una misura di “Reddito di garanzia e continuità per i precari”. Questo significa anche rinnovare il sindacato, mettendo in discussione il primato della finanza e dei mercati, contrastando un’idea “americana” delle relazioni sindacali, quale quella propria del “modello FIAT”, del quale troppi non hanno compreso a fondo la pericolosità. «Senza una solidarietà generale tra i lavoratori, senza una strumentazione di diritti garantiti in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi azienda, il sindacato non esiste più», afferma Landini, che puntualizza: «Continuo a pensare che questi non sono ragionamenti “vecchi”, ma valori che vanno riaffermati».

 

Rapporto Diritti Globali: Dopo la sua lunga esperienza alla guida dei metalmeccanici, da un anno è segretario confederale della CGIL. Una visione più complessiva del mondo del lavoro le ha fatto mutare il giudizio sul ruolo del sindacato?

Maurizio Landini: In tutto il mondo sono in crisi tutte le organizzazioni di rappresentanza sociale, sia quelle politiche che quelle sindacali, e sta cambiando in modo radicale il modo in cui operano imprese e produzione. Mai come oggi abbiamo tanta precarietà del lavoro, tanta diseguaglianza, tanta frammentazione sociale, tanta competizione tra le persone. E, dall’altra parte, non c’è più un punto di vista del lavoro, una visione alternativa della società, mentre c’è e predomina il punto di vista del mercato e della finanza. In prospettiva, certamente il sindacato ha un futuro; ma deve avere un modello sociale di riferimento. Se chiediamo ai lavoratori di organizzarsi in sindacato, non basta dire che il sindacato serve per tutelare le loro condizioni di lavoro. Bisogna proporre anche un progetto di trasformazione sociale, un’idea diversa di giustizia sociale, di eguaglianza. Bisogna avere un’idea del perché e del come si lavora e si produce; bisogna avere un’idea di reale coinvolgimento e partecipazione delle persone. Si è scelta la strada di lasciar fare al mercato; si è lasciata vincere – nella cultura e nella politica – l’idea che al centro di tutto ci sono il mercato e la finanza. Questo rischia di far scomparire la soggettività delle persone che lavorano, e dunque di ridurre la possibilità di costruire un punto di vista diverso e di trasformazione. Serve anche un rinnovamento delle pratiche sindacali, partendo dal rafforzamento di alcune caratteristiche importanti del sindacato italiano, che hanno fatto sì che ancora oggi – mentre un po’ dappertutto il tasso di sindacalizzazione è in forte calo – nel nostro Paese i numeri sulle adesioni siano migliori. Da noi le cose vanno meglio perché il sistema di relazioni industriali si basa su una struttura contrattuale fondata sui contratti nazionali di categoria e sulla contrattazione aziendale. Sappiamo molto bene che questo modello contrattuale è minacciato dalla frammentazione del processo lavorativo: penso alle esternalizzazioni, al sistema degli appalti e dei subappalti, al proliferare di cosiddette “cooperative”. Al fatto che le tecnologie che intrecciano il digitale e la manifattura cambiano il perimetro delle tradizionali categorie produttive sulla cui base è ancora oggi organizzato il sindacato. Per reggere a questo cambiamento, dobbiamo essere in grado di riunificare in capo alle persone i diritti di chi lavora. Conquistando anche una nuova legislazione sul lavoro e un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori.

 

RDG: Ci sono modelli sindacali esteri che conosce e apprezza?

ML: Conosco bene e apprezzo la IG Metall, la grande organizzazione sindacale tedesca, che si è predisposta a rappresentare tutti i lavoratori che concorrono alla catena di valore del prodotto, dalla produzione alla consegna, all’assistenza. Dobbiamo riunificare i contratti; ma questo significa riaffermare il valore fondamentale del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. La pericolosità del modello FIAT, inizialmente da troppi sottovalutato, è che ha provato senza riuscirci ad affermare in Italia un’idea americana delle relazioni sindacali in cui non esiste più il contratto nazionale. Il sindacato diventa un soggetto aziendale, che partecipa alla competizione tra le diverse aziende. Un’innovazione che distrugge il cuore della stessa nostra ragion d’essere: senza una solidarietà generale tra i lavoratori, senza una strumentazione di diritti garantiti in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi azienda, il sindacato non esiste più. Io continuo a pensare che questi non sono ragionamenti “vecchi”, ma valori che vanno riaffermati. Per tornare alla domanda iniziale – se cioè il sindacato abbia un futuro – ebbene, il sindacato secondo me può avere un futuro perché ci sono milioni di persone che lavorano, persone che hanno bisogno e diritto di stare insieme per tutelare la loro condizione di lavoro.

Il punto centrale deve essere che i diritti fondamentali della persona non devono più rimanere legati al lavoro che si svolge, e non possono di fatto essere diritti effettivi solo se si lavora a tempo indeterminato. Devono essere diritti esigibili e garantiti per chiunque lavori, qualunque sia il lavoro svolto, qualunque sia la modalità, qualunque sia il grado di autonomia nella prestazione. E in questa logica, da un lato, non è più possibile continuare ad avere quasi 800 contratti nazionali di lavoro; dall’altro, bisogna ridisegnare i contratti per mettere assieme tutte le persone che lavorano nella medesima filiera produttiva. Non farlo rischia di diventare un fattore di debolezza e di competizione tra lavoratori, mentre, dall’altra parte, il governo dell’impresa è totalmente centralizzato. Dunque, dobbiamo riformarci e ridefinire le vecchie categorie, riducendo il numero dei contratti e pensando a una contrattazione di tipo nuovo. Il che implica l’abbandono della tradizionale ostilità del sindacato a una regolazione per legge della rappresentanza e di altre materie sindacali. Io credo che oggi sia giunto il momento di una legislazione sul lavoro e di una legge sulla rappresentanza come proposto nella Carta dei diritti della CGIL che garantiscano determinati diritti in capo ai lavoratori, compreso il diritto di votare tutti gli accordi che li riguardano, il diritto di potersi scegliere il sindacato cui aderire, e la misurazione della legale rappresentanza (anche datoriale) attraverso un funzionamento più trasparente di tutte le organizzazioni di rappresentanza collettive.

Il ruolo del sindacato è anche quello di creare il consenso sociale e politico per ricostruire una nuova legislazione del lavoro e, se necessario, dobbiamo costruire anche una mobilitazione sociale per sostenerla. Nessun altro lo farà al posto nostro.

 

RDG: Si parla sempre più spesso di fallimento del modello socialdemocratico in Europa e i risultati dei partiti nelle elezioni in parecchi Paesi sembrano confermarlo. Come può il sindacato vivere senza una sponda politica?

ML: Il sindacato deve essere indipendente e autonomo dalla politica, ma non indifferente e trovo grave il vuoto che c’è nella rappresentanza politica del mondo del lavoro. Nella sua autonomia, con la sua unità e con il suo pluralismo, credo che la CGIL possa dare un contributo alla ricostruzione di una cultura politica che riparta dalla centralità del lavoro. Voglio essere chiaro: primo punto, se questo compito non lo assume su di sé la CGIL non vedo chi altri possa svolgerlo. Secondo punto, la CGIL può svolgere questo compito, perché fin dalla sua nascita ha scelto di essere un sindacato confederale fondato su un progetto di trasformazione sociale. Dopo la fine dell’esperienza “comunista”, a me pare che sia in crisi anche l’esperienza della socialdemocrazia, ovvero di quel modello di mediazione sociale tra imprese e lavoro che aveva dato vita allo Stato sociale. Lo dimostra il fatto che siamo di fronte a un arretramento senza precedenti delle condizioni di vita delle persone che lavorano e a un attacco ai sistemi universali di tutela sociale dalla sanità alla previdenza, all’istruzione. Per avere un futuro, il sindacato deve tornare a rappresentare e unire tutto il mondo del lavoro, e costruire su questa base una cultura politica e sociale alternativa all’attuale modello che ha al centro mercato e finanza. Nel 1970 anche le forze politiche di destra e di centro votarono lo Statuto dei diritti dei lavoratori perché riconobbero che uno dei nostri principi costituzionali, la centralità dei diritti della persona che lavora, è un interesse generale da riconoscere e tutelare. E solo successivamente si articola la politica, a destra, a sinistra o al centro. Oggi siamo al paradosso che in Europa partiti che fanno riferimento all’Internazionale socialista sono stati i promotori di leggi che hanno ridotto i diritti e le tutele e, in Italia, la messa in discussione dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Con lo Statuto del 1970 il lavoratore veniva tutelato dal licenziamento ingiusto; oggi con la nuova legge viene tutelata l’impresa, che può disporre un licenziamento ingiusto sborsando un po’ di soldi. Un cambiamento culturale davvero drammatico, che riporta il lavoro a una merce.

 

RGD: Un processo comune a gran parte dell’Europa e che in Italia raggiunge picchi inesplorati è quello del calo della partecipazione politica e dell’affluenza alle elezioni. Un fenomeno legato al modello sociale dominato dal liberismo?

ML: C’è un problema più generale. Ci sono sempre meno spazi in cui le persone possono partecipare e decidere, c’è meno democrazia, ormai un quarto degli italiani non va a votare. E il sindacato si deve porre con forza il tema di come ricostruire una partecipazione democratica alle scelte, perché non è possibile, né giusto, né accettabile che nei luoghi di lavoro ci sia chi decide – l’impresa – e chi deve adeguarsi alle altrui decisioni senza poter mai dire la sua.

Il sindacato deve tornare a occuparsi della condizione di lavoro e di vita delle persone, a contrattare nuovi modelli di organizzazione del lavoro. Adesso parliamo molto di Industria 4.0, c’è un grande cambiamento dei modelli organizzativi nelle aziende. Ma in questi anni – e secondo me è una delle ragioni delle difficoltà della sinistra e del sindacato – è passata l’idea che il modo di lavorare non fosse più un tema oggetto di negoziazione o di confronto. Immaginare e proporre soluzioni per lavorare in modo diverso, più efficace, per dare più spazio di partecipazione e di decisione ai lavoratori, deve tornare a essere una nostra priorità contrattuale.

Nonostante la crescita spaventosa del lavoro precario e le basse retribuzioni, c’è una domanda di sindacato. Basta pensare a quanto succede nella filiera logistica. Si può accettare il dilagare del sistema delle cooperative e del subappalto, che spesso nasconde la presenza della criminalità organizzata? Si può accettare che un giovane che cerca lavoro – senza essere figlio o conoscente di qualcuno – non abbia un luogo fisico, una struttura pubblica in grado di dargli risposte? Che addirittura adesso si debba pagare per lavorare, e non il contrario? Si tratta di una grave degenerazione, di un degrado sul piano dei valori culturali, perché favorisce un modello sociale fondato sulla competizione tra le persone e sull’insicurezza. Perché è da qui che scatta poi la paura del migrante: diventa normale il timore che, se non si accettano determinate condizioni di lavoro, ce ne sono altri dieci pronti a lavorare a un euro di meno.

 

RGD: In tutto il mondo si considera l’Italia un laboratorio del primo governo sovranista in Europa occidentale. La CGIL ha però lodato, almeno in parte, alcuni provvedimenti in tema di lavoro come il decreto Dignità.

ML: Questo governo è il frutto di un contratto tra due soggetti che alle elezioni si sono presentati in alternativa tra di loro e che poi si sono messi insieme per poter avere la maggioranza in Parlamento. Noi come CGIL siamo autonomi dai partiti e quindi guardiamo al merito della reale azione di governo e dei singoli provvedimenti.

Stanno emergendo tratti pericolosi e inaccettabili che arrivano fino ad attaccare le istituzioni democratiche e le regole fondamentali di convivenza. Così come sui migranti e sulla chiusura dei porti siamo davanti ad una guerra ai più poveri mentre invece di combattere chi ha la pelle nera bisognerebbe combattere il lavoro nero. Allo stesso tempo, distinguiamo e diamo un giudizio articolato sui provvedimenti assunti dal governo in tema del lavoro. Ma serve più coraggio per avviare una politica più ampia che superi davvero il Jobs Act. Sui voucher la nostra Carta dei diritti propone di regolare il lavoro occasionale, la strada è quella. Così come nel nostro Congresso proponiamo nuove misure come il Reddito di garanzia e continuità per i precari.

I governi di centrodestra prima e di centrosinistra dopo hanno fatto una strage dei diritti e prodotto una svalutazione del lavoro che è sotto gli occhi di tutti. La diseguaglianza è esplosa e anche chi lavora è povero e rinuncia a curarsi.

 

RDG: Siamo alla vigilia del Congresso del sindacato mondiale ITUC. In questi dieci anni di crisi economica la mancanza di un livello comune europeo di battaglia sindacale è stata più volte denunciato. Sono pronti i sindacati in Italia, e la CGIL in particolare, a cedere sovranità a livello continentale e globale?

ML: La battaglia per costruire un’Europa sociale – che oggi di fatto non esiste – non può che passare non solo per la difesa della nostra Costituzione ma anche portando la nostra Carta costituzionale in Europa. Va riaffermata una mediazione tra il lavoro e l’impresa e va combattuta invece la centralità assoluta del mercato, che di fatto cancella le persone e aumenta la competizione. Penso alla Grecia e alla Spagna, alla Francia e mi rendo conto che se non riusciamo ad affermare un profilo democratico – nel senso di estensione vera della democrazia e della partecipazione – noi rischiamo sempre più una logica di frammentazione europea e di ritorno a un passato che speravamo superato, fatto di nazionalismi, muri e contrapposizioni molto pericolose anche sul piano sociale e dei valori.

La discussione non è certamente semplice, perché prevale sempre di più un tentativo di difendere ognuno la propria dimensione nazionale. È indubbio che la forza che oggi hanno le multinazionali nel poter spostare soldi dove vogliono e nel poter mettere in competizione i lavoratori tra di loro – anche grazie a provvedimenti legislativi che li aiutano in tal senso – è un elemento che sta rendendo difficile la costruzione di un’azione unitaria europea o internazionale da parte delle organizzazioni sindacali. Se a ciò aggiungiamo i livelli di disoccupazione europei, ci rendiamo conto che la strada da compiere per giungere a una comune azione sindacale è ancora molto lunga e difficile.

Credo comunque che l’occasione che abbiamo con questi congressi sia da cogliere a pieno, perché si sta aprendo una discussione su quali debbano essere i diritti comuni, si sta ragionando di come rilanciare una politica di investimenti che rimetta al centro l’occupazione, si sta ragionando anche di come si possa intervenire sugli orari di lavoro come elemento di redistribuzione. È un cammino non semplice, ma non vedo alternative.

È indubbio che per arrivare a definire diritti comuni in Europa è necessario difendere i contratti collettivi nazionali. È da lì che si parte per estenderli a livello europeo. Al contrario – come è accaduto in Italia e come sta accadendo in questi giorni in Francia – la limitazione della contrattazione collettiva o la cancellazione dei contratti rende impossibile questo allargamento.

 

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Maurizio Landini: è nato a Castelnuovo ne’ Monti (Reggio Emilia) nel 1961. A 15 anni ha lavorato come saldatore in una cooperativa metalmeccanica. Poi ha iniziato la carriera sindacale come delegato della FIOM-CGIL, per la quale è stato prima segretario a Reggio Emilia, poi dell’Emilia-Romagna e poi a Bologna. Il suo passaggio a livello nazionale è arrivato con la chiamata dell’altro reggiano Gianni Rinaldini. Diventato segretario nazionale, ha sostituito Rinaldini come segretario generale della FIOM nel 2010, appena scoppiò il caso FIAT. La battaglia fatta contro il cosiddetto “modello Marchionne” (mantenere le fabbriche in Italia in cambio di tagli a salari e diritti) lo ha portato alla ribalta sindacale e mediatica. La FIOM è diventata il punto di riferimento di una lotta che è stata riferimento per l’intera sinistra italiana. Riconfermato segretario generale nel 2014, Landini lanciò la “Coalizione sociale” un movimento sindacale che puntava a riunire il mondo del lavoro, mai così diviso. Nel 2017 è diventato segretario confederale della CGIL. Ha pubblicato: Cambiare la fabbrica per cambiare il mondo – La Fiat, il sindacato, la sinistra assente (con Giancarlo Feliziani, Bompiani, 2011); Forza lavoro (Feltrinelli, 2013); I miei primi Primo MaggioPerché oggi non vado a scuola e la Coop è chiusa? (con Umberto Romagnoli, editore L’Io e il Mondo di TJ, 2015).

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IL 16° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI PUO’ ESSERE ACQUISTATO O ORDINATO IN LIBRERIA, OPPURE DIRETTAMENTE ONLINE DALL’EDITORE

Leggi qui la prefazione “I diritti globali al tempo degli algoritmi e del rancore”, di Susanna Camusso,

Leggi qui l’introduzione “La banalità del disumano” di Sergio Segio

Guarda qui il video della presentazione del 16° Rapporto (Roma, 14 dicembre 2018)



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