Intervista a Demostenes Floros. I rischiosi scenari geopolitici e il futuro dell’energia

Intervista a Demostenes Floros. I rischiosi scenari geopolitici e il futuro dell’energia

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Quella dell’energia è una questione di importanza strategica dalla quale dipendono assetti geopolitici, rapporti tra Stati, equilibri politici ed economici. La grande disponibilità di determinati Paesi in termini di fonti di energia indispensabili per usi civili e industriali mette tali Paesi in condizioni di influenzare i processi politici ed economici a livello internazionale. Questo è vero, ad esempio, per la Russia di Vladimir Putin, visto il rapporto di dipendenza che l’UE ha nei suoi confronti per quel che riguarda l’erogazione di gas. Le riflessioni sul futuro energetico del pianeta sono spesso caratterizzate da una certa inquietudine non solo sul piano dei rapporti geopolitici ma anche su quello del fabbisogno mondiale che cresce con l’aumentare della popolazione e dell’impatto ambientale. È chiaro che una svolta verde in termini energetici non è stata ancora realizzata e i suoi tempi non sono facili da prevedere. Ne parliamo con Demostenes Floros, analista geopolitico, esperto di questioni energetiche.

 

Rapporto Diritti Globali: Come può definirsi, al momento, il ruolo geopolitico della Russia di Putin e come si può quantificare attualmente la sua influenza sullo scacchiere internazionale?

Demostenes Floros: Dopo il crollo del Muro di Berlino, lo scioglimento del Patto di Varsavia e il disfacimento dell’Unione Sovietica, avvenuti nel biennio 1989/91, gli Stati Uniti d’America sono rimasti l’unica superpotenza a livello globale capace di influenzare e determinare i destini dell’intero pianeta, grazie alla propria superiorità in campo economico e militare. Il politologo statunitense Francis Fukuyama arrivò addirittura a coniare l’espressione “la fine della storia”, intendendo con essa la sopraggiunta impossibilità nell’analizzare il divenire della realtà attraverso lo strumento filosofico della contraddizione, quindi profetizzando la vittoria definitiva e irrevocabile del fattore capitale sul lavoro.

Oggi, a quasi tre decadi da tali avvenimenti, possiamo affermare, con relativa certezza, che mai profezia fu così errata. Di fatto, il peso dell’economia USA rispetto al PIL mondiale decresce, nascono nuovi centri finanziari, la manifattura si sposta a Oriente e nuove potenze si ripresentano nell’arena globale. Su tutte, la Federazione Russa e la Cina, le quali – congiuntamente – si contrappongono all’unipolarismo statunitense nel tentativo di implementare un assetto politico internazionale basato su un approccio multilaterale.

Attualmente, l’influenza della Federazione Russa sullo scacchiere internazionale è in forte aumento in virtù del consolidamento della propria sovranità nazionale e della vittoria militare ottenuta in Siria, la quale inevitabilmente porterà a un mutamento dei rapporti di forza tra le diverse potenze in Medioriente, nel Nord Africa, così come nel rapporto tra l’Unione Europea e la Russia.

Anche l’accordo raggiunto in sede OPEC per la riduzione dell’offerta di petrolio – che ha suggellato il fallimento della strategia saudita, dei suoi vassalli e, più in generale, di chi non vuole una Russia padrona del proprio destino – è figlio della vittoria militare di Mosca in Siria.

 

RDG: L’8 giugno 2017 il Parlamento ucraino ha approvato la richiesta di adesione del Paese alla NATO. Il portavoce ufficiale del Cremlino ha dichiarato di assistere con inquietudine all’avvicinamento della NATO ai confini russi. Quali sono i rischi legati all’allargamento dell’organizzazione atlantica?

DF: In primo luogo, sarà opportuno ricordare che quando Michail Gorbaciov “svendette” la DDR e ritirò l’Armata Rossa, acconsentendo così al crollo del Muro di Berlino, gli Stati Uniti diedero la loro parola in merito al fatto che mai la NATO si sarebbe espansa verso Est. Anche in questo caso, mai promessa fu così poco mantenuta. A onor del vero, quand’anche gli USA avessero messo tale decisione per iscritto, nei fatti avrebbero comunque potuto violarla (vedi l’uscita di George Bush Junior dall’accordo sugli ABM – Anti-Ballistic Missile – con la conseguente possibilità di un first nuclear strike).

Il colpo di Stato organizzato in Ucraina al fine di portare al governo anche forze dichiaratamente naziste – ma sotto il controllo politico degli USA, e solo in minima parte dell’UE – è la prosecuzione di tale disegno che, nella mente di alcuni strateghi a Washington, dovrà concludersi con l’allargamento della NATO anche a Moldavia e Georgia. Ciò, inevitabilmente, comporterà che il rischio di un conflitto – probabilmente nucleare – aumenti in Europa. Infatti, da un punto di vista strettamente militare, la Federazione Russa non potrà mai accettare di vedersi puntare i missili a poche centinaia di chilometri da Mosca, senza adottare le necessarie contromisure.

 

RDG: È esatto affermare che la politica dell’UE a questo proposito è contraddittoria?

DF: Più che contraddittoria, direi incomprensibile, se non addirittura miope verso gli interessi europei e soprattutto, irresponsabile in merito al discrimine pace/guerra. Infatti, ciò che più preoccupa è che quanto avvenuto in Ucraina – ma anche i nuovi armamenti collocati in Polonia, Repubblica Ceca e Romania – mette in primo luogo in pericolo la vita di tutti i cittadini europei, da Lisbona agli Urali, proprio perché l’entrata di Kiev nella NATO farebbe saltare in aria qualsiasi elemento di deterrenza in Europa.

Se invece ci spostassimo da un piano squisitamente militare a uno economico, trovo la possibilità di fare entrare l’Ucraina nell’UE in linea con l’obiettivo di creare un’entità sovrastatale dove i capitali possono muoversi “liberamente” cioè, delocalizzando e/o perseguendo la tassazione più conveniente, mentre il fattore lavoro si contraddistingue per una continua e costante riduzione del proprio valore monetario e per una compressione dei diritti, così come dello Stato sociale.

 

RDG: Cosa si può dire, in generale, del ruolo geopolitico dell’Unione Europea?

DF: In primis, nonostante la presenza di un “Ministro degli Esteri” – che l’allora governo italiano a guida di Matteo Renzi erroneamente pretese nella figura di Federica Mogherini, invece di puntare su un Commissario con responsabilità in campo economico – l’UE non ha una politica estera unica e autonoma. Sia nella crisi ucraina, sia in quella libica, le principali potenze europee avevano agende chiaramente diverse se non addirittura contrapposte. Inoltre, non è certo un mistero per nessuno, affermare che alcuni membri dell’Unione – a partire dalla Polonia e dai Baltici – quasi sempre esprimono la longa manus degli interessi USA.

È comunque perlomeno curioso che l’attuale presidente del Consiglio Europeo – il polacco Donald Tusk, già Primo Ministro del suo Paese dal 2007 al 2014 – provenga da uno Stato che non adotta l’euro, dal momento che la Polonia non è, e non ha alcuna intenzione di diventare, un membro dell’Unione Europea Monetaria.

Senza dubbio, la NATO svolge anche il ruolo di “compattatore” degli interessi tra le due sponde dell’Atlantico, ma con una chiara e netta prevalenza nell’esprimere le volontà di Washington più che quelle di Berlino/Bruxelles. Da questo punto di vista, l’allargamento dell’UE verso Est, quasi sempre, è stato prodromo per quello immediatamente successivo dell’Alleanza Atlantica. Così facendo, l’UE ha però abdicato alla possibile creazione di un sistema di difesa comune europeo.

Qualcuno potrebbe obiettare che dopo l’elezione di Donald Trump a inquilino della Casa Bianca le cose possano cambiare. Ciò è possibile nella misura in cui la più grande crisi economica dal 1929 a oggi è ancora drammaticamente ben presente in Occidente, mentre lo scontro tra capitali che si sta sempre più acuendo porterà a un’ulteriore divaricazione degli interessi in campo (oltre a lasciare dei “morti” sul campo).

Personalmente, trovo comunque molto interessanti le parole pronunciate dal liberale Marcello Foa il quale, proprio in merito al G7 di Taormina, ebbe a dire: «Non è strano che un cancelliere prudentissimo come Angela Merkel trovi improvvisamente il coraggio per dire: impossibile ormai fidarsi degli USA? Anche l’Europa nella strategia volta a far cadere il presidente USA Donald Trump: ecco perché la cancelliera tedesca Angela Merkel è così audace. […]. Il sospetto è che tanto ardire sia calcolato e strumentale. Quando negli USA le élite anti Trump riconquisteranno la Casa Bianca, l’UE tornerà a essere consenziente e l’audace Merkel di nuovo pragmaticamente mansueta».

 

RDG: La Russia detiene il potere dell’erogazione di gas. C’è chi afferma che si può porre fine alla dipendenza dell’UE dalla Russia sotto questo profilo. Si tratta di una prospettiva realistica?

DF: Non si tratta solo di una prospettiva irrealistica, ma di prendere lucciole per lanterne. Sono almeno dieci anni che si avanzano fantasie del genere, con il risultato che la quantità di gas naturale esportato dalla Federazione Russa all’Europa (UE più Turchia e Serbia) è quasi sempre costantemente aumentata, sia in termini assoluti, sia relativi, perché mentre i nostri consumi crescono la produzione europea è in continuo calo.

Produttori di lungo corso come l’Olanda hanno oramai riserve insufficienti anche per rispondere alle proprie necessità. Altri, come la Norvegia e il Regno Unito, hanno da tempo raggiunto il picco massimo della produzione, mentre l’Algeria ha un cronico problema di investimenti insufficienti. Se poi aggiungiamo le conseguenze della guerra in Libia, mi pare che il puzzle sia completo.

La domanda, però, non mi stupisce più di tanto, nella misura in cui il precedente Commissario europeo all’energia, il tedesco Günther Oettinger (quello dello scandalo Dieselgate) era solito rilasciare interviste nelle quali affermava che l’Azerbaijan, nel futuro prossimo, avrebbe coperto il 25% dei consumi dell’UE. Purtroppo, Baku potrebbe arrivare a fornire non più del 2,5% dei nostri consumi. Anzi, al fine di adempiere ai propri contratti di esportazione attualmente in essere, l’ex Repubblica Sovietica è stata costretta a importare gas naturale dall’estero per soddisfare i propri bisogni interni. Inutile rimarcare da quale Paese (stesso discorso per l’Olanda).

In definitiva, suggerirei alle élite europee di modificare completamente l’approccio al tema. E cioè: non solo la Federazione Russa non può essere sostituita da altri fornitori nell’approvvigionamento gasiero, bensì è l’unico polmone sul quale possiamo fare affidamento in termini di reliability, ovvero di affidabilità nelle forniture e nei prezzi, senza dubbio alcuno. Di fatto, fu così per l’Unione Sovietica nel drammatico contesto della Guerra Fredda; lo è stato recentemente e lo sarà anche in futuro per la Federazione Russa, nonostante le tante “rivoluzioni colorate” che le sono state organizzate nel corso dell’ultimo quindicennio, guarda caso nelle proprie zone di influenza.

Nel contempo, il secondo polmone dovrà giustamente prevedere una diversificazione dei fornitori che, a mio avviso, sarà però tutt’altro che facile da perseguire, visto che anche lo shale gas americano – se mai arrivasse a essere esportato in quantità significative – prenderà più facilmente la via del mercato regionale asiatico del gas, più promettente del nostro per stime di crescita e prezzi di vendita.

 

RDG: La questione energetica di recente si è complicata, complici le posizioni di Trump sugli accordi internazionali riguardanti i cambiamenti climatici. Ci si deve aspettare concretamente un passo indietro o c’è qualcosa da fare in questo ambito?

DF: Il mio timore è che Donald Trump non receda dalle posizioni assunte anche se, in teoria, ci sarebbe tutto il tempo a disposizione affinché si possa giungere a ridisegnare un nuovo accordo che comprenda anche gli Stati Uniti d’America, i quali – a livello pro capite – sono rispettivamente, i più grandi consumatori di energia primaria, nonché produttori di anidride carbonica, al mondo.

In merito ai cambiamenti climatici, è però necessario mettere in luce come gli anni della Presidenza Obama siano stati caratterizzati da un fortissimo impulso alle perforazioni grazie alla tecnica produttiva della fratturazione idraulica, il cosiddetto fracking.

Ebbene, quest’ultima scoperta è stata certamente rivoluzionaria nella misura in cui ha permesso agli USA di riprendere a incrementare la produzione di tight oil e shale gas, ma sta avendo delle ricadute ambientali che più analisti definiscono come semplicemente devastanti.

La hydraulic fracturing, infatti, utilizza sostanze chimiche, spreca un’immensa quantità di acqua, incrementa le emissioni di anidride carbonica nell’ambiente (gas flaring) e provoca fenomeni sismici. Basti pensare che nella regione dell’Oklahoma i terremoti di una magnitudo percettibili per l’essere umano sono passati da 2-3 all’anno a oltre 300. Non a caso, il fracking è proibito in alcuni Stati americani, così come in altri europei a partire dalla Francia.

Quindi, se per un verso le posizioni espresse dal neo presidente USA sono indubbiamente preoccupanti, dall’altro, non sono così certo che chi lo ha preceduto abbia effettivamente implementato politiche green.

 

RDG: Quali le possibilità future di una svolta sul piano delle rinnovabili? Secondo alcuni studiosi le riserve di petrolio sono destinate a esaurirsi entro il XXI secolo. Possibile? Comunque cresce il fabbisogno energetico, per il 2030 si prevede una popolazione mondiale di 8 miliardi di persone.

DF: Troppo spesso gli studiosi hanno previsto la fine dell’era del petrolio e, più in generale, dei combustibili fossili, individuandone una data certa. Puntualmente, nuove scoperte hanno smentito tali previsioni. A oggi, sappiamo che le riserve di “oro nero” cioè, le risorse (giacimento) accertate, dureranno ancora per diversi decenni.

Il punto, però, mi pare essere un altro: può un pianeta finito – nel senso di limitato nelle risorse naturali – sostenere una crescita infinita?

Senza dubbio alcuno, immagino che un fisico risponderebbe di “no” all’istante. Come analista geopolitico, ritengo che il passaggio tanto auspicato alle rinnovabili le quali, a oggi, coprono poco più del 3% del mix energetico globale rispetto all’86% circa costituito dalle fonti fossili, dovrebbe essere accompagnato da una costante e forte riduzione dell’uso del carbone – la fonte più inquinante.

Di converso, bisognerebbe incentivare l’utilizzo del gas naturale, molto meno inquinante rispetto al carbone e al petrolio, relativamente facile da trasportare, e di cui il pianeta è ricco.

Da un punto di vista politico, ritenere che il passaggio all’era delle rinnovabili sarà possibile solo attraverso una lunga transizione che sappia fare perno sulle peculiarità dell’“oro blu”, vuol dire che il peso geopolitico di quegli Stati che ne posseggono grandi quantità aumenterà significativamente rispetto a quello di coloro i quali ne sono sprovvisti. D’altronde, la stessa crisi ucraina e le sanzioni che ne sono seguite hanno molto a che fare con quanto ho appena affermato.

In conclusione, nessuno ci assicura che tale transizione sarà gestita pacificamente, né che la pressione dell’accumulazione capitalistica sul vincolo delle risorse naturali non necessiti di uno stravolgimento delle attuali condizioni di produzione e riproduzione dei rapporti sociali, quindi, dei rapporti di proprietà.

 

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Demostenes Floros: è analista geopolitico ed esperto di questioni energetiche. Laureato in Economia Politica all’Università di Bologna, scrive per la “Limes” e per “Oil”. Ricercatore economico presso l’Istituto Ricerche Economiche e Sociali (IRES) dell’Emilia-Romagna. Responsabile sull’Osservatorio dell’economia e del lavoro; Politica Industriale, Bologna. Responsabile e Docente a contratto del corso di Geopolitica istituito presso l’Università Aperta di Imola, Bologna. Collaboratore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). È autore di diverse pubblicazioni.

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