Il petrolio siriano e le mire di Trump
Trump vuole impedire che Assad disponga di risorse indispensabili e rendere chiaro che gli Usa impediranno la costruzione di qualunque pipeline che dall’Iran, attraversando l’Iraq, possa raggiungere il Mediterraneo
La verità su questo capitolo di guerra siriana emerge pezzo dopo pezzo come in un puzzle e ha un nome: guerra per il potere, per il gas e il petrolio. Una verità che dobbiamo proprio a Trump.
È una partita complessa che coinvolge Russia, Turchia, Europa, Iran, Iraq e, ovviamente, gli Stati uniti. E si combatte sulla pelle dei popoli della regione: «Ogni goccia di petrolio vale una goccia di sangue», diceva il colonialista britannico Lord Curzon che negli anni Venti decise il destino sui pozzi iracheni di Mosul e Kirkuk. Fu quello il primo tradimento dei curdi misurato in barili di petrolio.
«Ci prenderemo il petrolio siriano per evitare che cada in mano all’Isis e lo daremo alle nostre compagnie», ha detto il presidente statunitense Donald Trump quando è stato ucciso Al Baghadi, schierando le truppe americane, le stesse che avrebbero dovuto proteggere i curdi, intorno ai pozzi petroliferi di Deir ez Zhor, città tristemente famosa per il martirio degli armeni nel ’900 che, guarda caso, il Parlamento Usa ha appena definito un genocidio con voto quasi unanime.
La Siria oggi produce una miseria di greggio, circa 24mila barili al giorno contro i 350mila del livello pre-bellico nel 2011, un quantitativo che anche allora era modesto e destinato in gran parte al consumo interno. Tanto per avere un’idea il vicino Iraq produce 5-6 milioni di barili al giorno: l’Iraq, con 150 miliardi di barili di riserve, è una cassaforte di energia, così come l’Iran, che ha le seconde riserve di gas al mondo dopo la Russia ma disgraziatamente è sotto embargo americano.
Il petrolio siriano, fino a quando non saranno riabilitati gli impianti di estrazione – investimenti che Damasco al momento non può fare – riveste un significato più politico che economico. E allora qual è il vero interesse americano a controllare questo petrolio, in violazione di ogni legge internazionale? In primo luogo Trump vuole impedire che Assad disponga di risorse indispensabili mettendo sotto pressione i suoi alleati Russia e Iran che lo hanno aiutato militarmente ed economicamente.
In secondo luogo intende rendere chiaro che gli Usa impediranno la costruzione di qualunque pipeline che dall’Iran, attraversando l’Iraq, possa raggiungere la Siria e il Mediterraneo, che è una delle cause della guerra per procura in Siria.
Assad aveva rifiutato nel 2009 il passaggio di un gasdotto dal Qatar dicendo che avrebbe interferito con gli interessi del suo alleato russo, il maggiore fornitore di gas naturale verso l’Europa. Ma nel 2010 Assad cominciò a negoziare una pipeline con l’Iran che se fosse arrivata alle coste del Mediterraneo avrebbe consentito a Teheran di diventare uno dei più grandi fornitori europei, irritando americani, israeliani e sauditi, gli avversari della repubblica islamica.
Fu così che gli americani, assieme al Qatar e all’Arabia saudita, e poi alla Turchia, iniziarono a finanziare l’opposizione siriana preparando una rivolta per rovesciare il regime. Il Califfato, uno Stato islamico radicale sunnita tra Iraq e la Siria, era una creatura perfetta per impedire i progetti energetici di siriani e iraniani.
Ma c’è un terzo motivo, ancora più strategico che spinge Trump a mettere la bandiera Usa sui pozzi siriani: mandare un messaggio a Russia e Turchia che hanno appena inaugurato il Turkish Stream con il quale forniranno all’Europa e ai Balcani. È noto che gli Stati uniti hanno limitato o bloccato i progetti europei delle pipeline con Mosca.
O meglio: lo hanno concesso ai tedeschi con il North Stream ma hanno fermato il South Stream di Saipem-Eni con i russi. Insieme all’acquisto da parte della Turchia dei sistemi anti-missile russi e agli accordi con Putin contro ogni logica di appartenenza alla Nato, questi sono i veri motivi di scontro tra Washington e Ankara. Qui sta il punto: gli Usa vogliono controllare il flusso delle risorse energetiche e determinare le quote di potere economico e politico degli stati della regione ma anche dalla Russia e della Turchia, che infatti hanno protestato duramente quando gli Stati uniti hanno occupato i pozzi siriani.
Anche l’Europa è fortemente coinvolta nell’operazione siriana: Bruxelles ha abbandonato i curdi senza prendere provvedimenti concreti nei confronti della Turchia ma ha deciso di imporre sanzioni ad Ankara e di mandare a Cipro navi militari, francesi e italiane – con l’approvazione americana – quando Erdogan ha lanciato la sua sfida inviando una nave da trivellazione, la Yavuz, nella «zona di sfruttamento esclusivo» di Nicosia dove ci sono già le concessioni di Eni e Total ma anche quelle dell’americana ExxonMobil, della Qatar Petroleum, della texana Noble Energy dell’israeliana Delek Drilling. Tutti insieme appassionatamente.
Il grande gioco del gas cipriota si inserisce sul progetto di gasdotto East-Med firmato con un Memorandum del 2017 tra Israele, Italia, Grecia e Cipro. Se realizzato l’East-Med, lungo 2.200 chilometri, porterà sui mercati europei il gas egiziano del giacimento di Zhor ma anche quello dei pozzi offshore israeliani di Leviathan e Tamar. Questi sono i piani che dovranno ridurre la dipendenza europea dal gas russo e da quello trasportato da Mosca in Turchia.
Altro che lacrime finto-umanitarie per il destino dei curdi: il prezzo del tradimento, come un secolo fa, si misura in barili di petrolio e metri cubi di gas.
* Fonte: Alberto Negri, il manifesto
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