Il carcere è ancora scuola di violenza. Intervista a Pietro Ioia
Ventidue anni di carcere per spaccio di stupefacenti, oggi Pietro Ioia è un attivista per i diritti dei detenuti ed insieme il simbolo della volontà di cambiamento e rinnovamento personale. Presidente dell’associazione Ex D.O.N., di recente insignito del premio “Diritti Umani 2019” consegnatogli da Ilaria Cucchi per il suo impegno, l’attivista è in prima linea nel denunciare soprusi e malfunzionamento del sistema carcerario italiano.
Con un decreto firmato dal sindaco partenopeo Luigi de Magistris, Pietro Ioia è stato ora nominato Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Napoli. La carica è stata formalizzata lunedì 9 dicembre, ha durata quinquennale ed è rinnovabile una volta sola. Per questo impegno Pietro Ioia non percepirà alcun compenso. Il neoeletto garante intende visitare, prima di Natale, il carcere di Poggioreale, il più affollato d’Italia, fa notare, e successivamente i penitenziari di Secondigliano, Nisida e Pozzuoli.
L’abbiamo incontrato per fare il punto della situazione napoletana.
Come descrive la situazione carceraria a Napoli?
Attualmente la situazione carceraria a Napoli è disastrosa, sia per i carcerati sia per i loro familiari che arrivano a Poggioreale alle sei del mattino e spesso se ne vanno alle quattro del pomeriggio. Poggioreale ha una capienza di 1.600 detenuti e ce ne sono 2.200; stiamo parlando di 600 detenuti in più. Non ci sono spazi per attività educative e i sono corsi di formazione sono pochissimi. 2.200 detenuti non si possono gestire in un carcere, e quello di Poggioreale non è nemmeno a norma europea e non dovrebbe trovare posto nel centro della città. C’è una legge europea che dice che i penitenziari non dovrebbero più essere ospitati nei centri cittadini ma nelle periferie per una questione di spazio. Poi un carcere dovrebbe avere due detenuti per cella, mentre qui ce ne sono 12-14. Quindi che recupero ci può essere? Allo stato attuale delle cose le carceri sono delle vere e proprie scuole di criminalità.
Per quel che riguarda l’alimentazione e l’assistenza sanitaria?
Anche in questo ambito la situazione è disastrosa. A Poggioreale sono necessari diversi mesi per una visita specialistica. Di recente vi è morto un detenuto che aveva la febbre a 39; si chiamava Claudio Volpe e aveva 33 anni. Accusava i sintomi della febbre, lo portavano giù, gli davano qualche pasticca, lo portavano su, poi di nuovo giù, un’altra pasticca e via dicendo. Alla fine gli hanno fatto un’iniezione che si è rivelata letale: Claudio si è messo a letto e non si è più svegliato. Qui ogni estate abbiamo 3-4 morti. Succede regolarmente da 3 anni a questa parte. Io ho soprannominato Poggioreale “il mostro di cemento” perché è un groviglio di ferro arrugginito e cemento, e una volta che ci entri si viene fagocitati da un sistema malavitoso, brutale. La cosa vale sia per chi ci vive sia per chi ci lavora.
Leggo che lei ha subito violenze in carcere da parte di agenti penitenziari. Cosa si dice in merito a questo fenomeno?
La violenza in carcere è sempre esistita. Prima se ne sapeva meno perché il sistema era più chiuso. D’altra parte si parla di case circondariali perché sono strutture chiuse. Ora, però, le cose sono un po’ cambiate grazie alla presenza degli attivisti, dei garanti metropolitani come è successo a Torino dove il garante metropolitano, una donna, ha denunciato undici poliziotti. Poi il detenuto non si comporta più come una volta; adesso denuncia perché ha capito che ha dei diritti, pochi ma li ha, e deve farli rispettare. Ora i casi di violenza vengono segnalati più spesso di una volta. Il detenuto è un uomo, non un numero, e questo va capito e lo devono capire coloro i quali gestiscono i penitenziari, a partire dai direttori. In carcere ci finiscono esseri umani, non macchine con un numero di matricola. La violenza comunque c’è sempre.
Perché questa violenza?
Prima di tutto penso che gli agenti penitenziari considerino i detenuti scarti della società, tu finisci a Poggioreale e anche se sei innocente, dicono “eh, questo è un altro”, non credono alla tua innocenza, “se sei qua devi aver fatto qualcosa”, dicono. Ti considerano un rifiuto. E pensano “se non avessi commesso un reato non ti troveresti qui”. Ma quand’anche tu fossi colpevole di qualcosa hai dei diritti; il punto è che le guardie non si chiedono perché tu abbia commesso un reato, non si interrogano su questo. Devo comunque dire che questa violenza è anche dovuta alla loro situazione lavorativa che è al limite della precarietà: a Poggioreale, per esempio, c’è un poliziotto che deve badare a da solo a duecento detenuti. Ecco, sono sotto pressione anche loro, per mancanza di personale, sono stressati e sfogano così la loro rabbia.
Oggi quale riscontro hanno le denunce per violenze?
Il primo risultato importante si ha quando un familiare viene da me perché ha visto il suo congiunto a colloquio tutto pesto. In questi casi la prima cosa che facciamo è denunciare il fatto. E quando il giorno dopo esce la denuncia sul giornale l’effetto che otteniamo è che quel ragazzo viene trattato bene. Non lo picchiano più perché vedono che sul giornale esce un articolo sul caso con la foto della mamma del detenuto, con quella di Pietro Ioia. L’effetto che otteniamo nell’immediato è che si ferma la macchina della violenza e questo è importantissimo, poi si va avanti con le indagini, a volte vinciamo, a volte no. Però capita anche che i penitenziari giochino d’astuzia trasferendo il detenuto in Sardegna, per esempio. Così, quando il magistrato va in carcere per aprire l’inchiesta e chiede del detenuto gli dicono che è stato trasferito per sovraffollamento. In questo modo si cerca di insabbiare il caso. Però devo dire che l’effetto che otteniamo subito è quello di far cessare le violenze, e questo è importante. Le cose si complicano se il detenuto non ha famiglia o se non c’è un garante che tuteli i suoi diritti. Ottenere comunque delle condanne a carico di guardie penitenziarie violente è ancora difficile. Però succede, anche se non spesso. È tuttora in corso, ad esempio, il processo sul caso della “cella zero”, a carico di dodici agenti. L’indagine è stata avviata all’inizio del 2014 e siamo ancora al primo grado. Siamo alla quinta udienza, ci sono i rinvii, insomma, la cosa va per le lunghe.
Da attivista sente di poter contare sulla collaborazione delle istituzioni?
Mah, io sono attivista da oltre dieci anni, ho trovato poca collaborazione da parte delle istituzioni e un grande apprezzamento, anche a livello politico, per quello che faccio. Insomma, molte parole ma niente o quasi in termini di collaborazione concreta. Faccio un esempio: arriva un parlamentare europeo che vuol rendersi conto della situazione carceraria a Napoli, gli faccio visitare Poggioreale, entra con me, questo sì, succede. Ultimamente me l’ha chiesto Cozzolino, parlamentare europeo del PD, che mi ha contattato perché desidera visitare Poggioreale sotto Natale. Ti usano per queste cose, per conoscere un po’ la situazione, però poi spariscono. Poca collaborazione, molti apprezzamenti ma a parole.
E con la giunta De Magistris?
No, collaborazione no. Ma ultimamente abbiamo ottenuto qualcosa facendo pressione per l’istituzione della figura del garante metropolitano. In questo siamo stati sostenuti dall’assessore Roberta Gaeta e ora speriamo che il garante venga nominato al più presto. La cosa è necessaria perché tra Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Nisida ci troviamo a doverci occupare di una comunità di 4.500 detenuti. Quindi ci vuole un garante metropolitano. Samuele Ciambriello, garante regionale, non può farcela da solo malgrado la sua competenza e la grande mole di lavoro che svolge. Con la sua popolazione carceraria, Napoli ha bisogno di un garante metropolitano la cui nomina è urgente.
Gli ex detenuti collaborano con gli attivisti ?
C’è collaborazione da parte loro. Io ricevo da loro molte lettere su quello che accade in carcere, sulle violenze e sull’inefficienza del sistema detentivo. In caso di violenze mi mandano i loro familiari per sporgere denuncia, quindi c’è collaborazione. Per il loro reinserimento è indispensabile il lavoro; io mi interesso, qualche volta riesco a farne assumere qualcuno ma è una goccia nell’oceano. Purtroppo l’ex detenuto è escluso dal mondo del lavoro e l’opinione pubblica non ci pensa. Appena sentono che sei un ex detenuto… qui ci vorrebbe l’aiuto delle istituzioni; e ripeto: il primo passo verso il reinserimento, il primo aiuto, è il lavoro. Offrendo possibilità di lavoro si vede se una persona vuole cambiare o meno, la si mette alla prova e contemporaneamente si mette alla prova l’apertura e la capacità di accoglienza della società. Ma se il lavoro manca?
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