La polveriera mediorientale

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Declino dell’ISIS e alleanze complicate

Nel 14° Rapporto sui diritti globali sottolineavamo come la guerra in Medio Oriente fosse prossima a una tappa di grandi battaglie attorno alle città in mano allo Stato Islamico, il quale cominciava a perdere iniziativa strategica. I fatti successivi hanno confermato quell’analisi. In quest’anno abbiamo assistito a lunghe e sanguinose battaglie il cui risultato, in Siria, è stato il controllo di Aleppo da parte delle truppe di Damasco (appoggiate dalle milizie alleate iraniane e degli Hezbollah libanesi, oltre che dalla forza aerea russa). L’esercito siriano controlla ora il doppio del territorio che controllava a luglio 2016. In territorio iracheno, invece, vanno segnalate la riconquista di Fallujah prima e, a inizio 2017, della strategica e popolosa città di Mosul, con conseguente avvicinamento alla frontiera siriana da parte dell’esercito iracheno e dei suoi diversi alleati (forze iraniane, milizia sciite, appoggio aereo e di intelligence statunitensi).

Al momento di chiudere questo 15° Rapporto sui diritti globali, è in corso una feroce battaglia per la liberazione della città siriana di Raqqa, considerata la capitale reale dello Stato Islamico. Le Forze Democratiche Siriane (FDS) – alleanza composta dalle milizie di autodifesa di Rojava (il Kurdistan siriano) e gruppi dell’opposizione arabo-siriana non islamici – appoggiate da forza aerea di Stati Uniti, Francia e Regno Unito, sono le protagoniste di questa battaglia. Secondo le ultime informazioni (agosto 2017), almeno il 50% della città è già stata liberata dalle milizie delle FDS, che hanno tratto in salvo migliaia di civili.

Come anticipato nel 14° Rapporto, inevitabilmente l’approssimarsi di queste battaglie ha avuto anche pesanti ripercussioni sulla popolazione civile, con migliaia di vittime, profughi e nuovi sfollati. Così è stato: ancora non ci sono sul terreno giornalisti e osservatori, ma le notizie fornite dagli stessi kurdi e dalle FDS per quel che riguarda Raqqa confermano che sono migliaia le nuove vittime e i nuovi profughi. Per quanto riguarda Mosul, alcuni dati forniti dall’intelligence kurdo-irachena parlano di oltre 40 mila vittime civili nella battaglia per la liberazione della città, durata nove mesi, durante i quali hanno abbondato i “silenzi informativi”. Amnesty International, in un Rapporto pubblicato dopo un lavoro sul campo condotto a marzo e maggio 2017, non fornisce cifre ma conferma quanto detto dai kurdi: migliaia di civili sono morti a causa dell’enorme potenza di fuoco impiegata contro di loro dalla polizia federale irachena, dagli attacchi aerei “alleati” e dallo stesso ISIS (che utilizza i civili come scudi) (Amnesty International, 2017).

La domanda, scomoda e spesso evitata, la pone il giornalista inglese Patrick Cockburn, che da anni segue, per il quotidiano “The Independent”, le vicende mediorientali: perché non ci sono state proteste per la distruzione di Mosul? Non c’era nessun dubbio, scrive Cockburn, sulla perdita di un gran numero di vite umane. Eppure… silenzio. Secondo il giornalista inglese, la ragione principale di questo silenzio è che si considera l’ISIS come un nemico eccezionalmente malvagio da sconfiggere a ogni costo, non importa il numero di vittime. Un’argomentazione comprensibile, sostiene Cockburn, ma che è anche la ragione per cui l’Iraq continua a non trovare pace (Cockburn, 2017 b).

Ma torniamo alle alleanze, anche queste a volte assai scomode, che si formano e disfano in nome della guerra al “terrorismo” (che, come abbiamo già detto, è etichetta “liquida”, che si applica tanto all’ISIS quanto al regime di Bashar al-Assad o, saltando al di là dell’Atlantico, al Venezuela). Tutte sono caratterizzate da interessi di vario genere, sono spesso instabili e a volte contraddittorie.

A grandi linee, se, da una parte, troviamo Stati Uniti, Francia e Regno Unito che appoggiano, con più o meno mezzi e volontà, l’esercito e il governo iracheno e sul fronte siriano le SDF (nella battaglia di Raqqa) e l’Esercito Libero Siriano (o quel che rimane di esso, viste le varie scissioni), dall’altra parte troviamo Russia, Iran e Hezbollah libanesi schierati con il governo siriano di al-Assad. L’Iran però (come gli Hezbollah, che hanno dichiarato, dopo la “liberazione” di Mosul, che non parteciperanno mai più a nessuna alleanza con USA) collabora con gli Stati Uniti in Iraq. In questo complicato scenario (che Pablo Bustinduy chiama efficacemente «geopolitica del disastro») bisogna aggiungere la Turchia (che salta di palo in frasca, dagli USA al Qatar, alla Russia, all’Egitto, nel delirio di onnipotenza del presidente Recep Tayyip Erdogan), l’Arabia Saudita (alleata USA), gli Emirati del Golfo e, last but not least, Israele.

 

ISRAELE STA LENTAMENTE UCCIDENDO GAZA

Refaat Alareer è nato e vive nella Striscia di Gaza. Cresciuto sotto l’occupazione israeliana ha vissuto e compiuto scelte condizionate dall’occupazione. Laureato in lingua e letteratura inglese all’Università Islamica di Gaza, è scrittore e professore. Ha curato l’antologia di racconti Gaza Writes Back, 23 storie, una per ogni giorno dell’attacco di Israele a Gaza nel 2008. In una lunga conversazione per il numero 5 della rivista “Global Rights Magazine”, Refaat Alareer ha riassunto così la situazione drammatica che sta vivendo la popolazione di Gaza, mentre si fanno insistenti le voci di un nuovo imminente attacco israeliano: Israele è un’occupazione la cui esistenza dipende dalla distruzione degli altri, della loro cultura, vita, futuro, terra. In settant’anni di occupazione Israele ha rubato ai palestinesi la maggior parte delle loro risorse naturali, compresa l’acqua. Di fatto, sta trasformando la West Bank in un formaggio svizzero, dove i buchi sono le piccole zone di resistenza palestinesi. Israele ha convertito Gaza nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. Nelle carceri chiuse israeliane ci sono oltre seimila detenuti palestinesi, tra cui molti bambini, donne, giornalisti, politici.

Gaza sta vivendo i suoi giorni peggiori: le frontiere sono chiuse e pochissime persone hanno il permesso di uscire. Israele ha ridotto al minimo le importazioni e esportazioni. Gli studenti non possono andare alle loro università fuori da Gaza, i malati muoiono aspettando che Israele dia loro il permesso di andare a curarsi. Due milioni di persone a Gaza vivono con tre ore di elettricità al giorno. La disoccupazione ha raggiunto il 45% e il 90% dell’acqua non è potabile. Le Nazioni Unite hanno detto che Gaza non sarà un luogo abitabile già nel 2020.

In poche parole: quello che sta accadendo in Palestina e a Gaza in particolare è un lento genocidio (Alareer, 2017).

 

Uno scenario futuro possibile in Medio Oriente e la Questione Kurda

Se nel campo di battaglia la situazione è cambiata in maniera significativa, vale la pena ipotizzare un possibile futuro per il Medio Oriente. E per farlo utilizzeremo la cosiddetta Questione Kurda.

I kurdi sono una popolazione stimata tra i 35 e i 40 milioni di persone che occupano territori montagnosi di oltre 500 mila chilometri quadrati, dal sud-est della Turchia, passando per il nord della Siria e dell’Iraq fino al nord-est dell’Iran, includendo almeno 200 mila persone in Armenia e Azerbaijan e 1,5 milioni nella diaspora, soprattutto in Europa occidentale.

Il 60% dei kurdi si rifà alla religione sunnita, ma ci sono anche sciiti, aleviti (da non confondere con gli alawiti siriani), cristiani e yazidi. La cosa interessante è che la partecipazione kurda ai diversi conflitti, articolata nelle sue diverse organizzazioni e strutture, non ha mai avuto un profilo religioso settario, ma si è basata invece soltanto sull’appartenenza etnico-culturale kurda.

Dotati di forti organizzazioni politiche e sociali, oltreché di nutrite, abili e sperimentate milizie, i kurdi hanno aspirazioni e obiettivi che potrebbero riassumersi in due campi ben definiti. Da un lato, c’è l’asse che, partendo dal cosiddetto Kurdistan “turco”, il Kurdistan del Nord, sotto influenza del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), passa per Rojava (il Kurdistan occidentale, nel nord della Siria) e le forze del PJAK, Partito della Vita Libera del Kurdistan (nel Kurdistan orientale, Rojhelat, in Iran). Si tratta di un insieme di organizzazioni con un vastissimo appoggio popolare e sociale che propugnano, a partire dalle teorie del leader del PKK, Abdullah Öcalan (incarcerato in Turchia dal 1999), un rivoluzionario sistema di autonomia democratica e autogestita, rispettosa della multi-culturalità e dove la partecipazione delle donne occupa un ruolo fondamentale. Una proposta politica e civile che viene messa in pratica nell’interessante e peculiare esperienza di Rojava.

L’altro asse politico kurdo si situa nel territorio che conforma il Governo Regionale del Kurdistan, nel Kurdistan del sud (nord Iraq), controllato dai leader dei due clan tradizionali, Mas’ud Barzani e Qubad Talabani. Il Kurdistan del sud funziona di fatto come Paese indipendente a tutti gli effetti all’interno del territorio iracheno e le sue autorità hanno fissato per il 25 settembre un referendum che potrebbe sancire questa indipendenza anche ufficialmente.

In mezzo a contendenti locali, regionali e internazionali che radicano le loro azioni nel settarismo religioso, la difesa di entità nazionali già scomparse in laceranti guerre civili (Siria e Iraq) e visioni geo-militari destinate a garantire il controllo delle grandi risorse naturali della regione, le rivendicazioni kurde cozzano contro tutto e sono, allo stesso tempo, l’unica opportunità reale di cominciare a costruire un futuro solido di pace, convivenza e coesistenza delle diverse nazioni, delle comunità culturali, etniche, religiose che vivono nel Medio Oriente.

Nonostante l’importante ruolo che giocano sul terreno, tutti sembrano impegnati a “usare” i kurdi continuando, tristemente, a non riconoscerli. I due assi kurdi indicati, dal canto loro, si appoggiano ad alleanze instabili e a volte contraddittorie (sono parecchi quelli che, per esempio, criticano la cooperazione con gli USA in Siria contro lo Stato Islamico) con l’obiettivo di garantire l’indipendenza dei territori che controllano, rafforzare le loro strutture politiche, sociali ed economiche ma anche per assicurarsi la maggior capacità di autodifesa militare possibile, consapevoli che la questione kurda sarà tema determinante, come già lo è stata in altri momenti della storia contemporanea, nella definizione della nuova mappa regionale che si dovrà negoziare quando le armi rimarranno finalmente in silenzio.

 

ISIS. Prossima fermata, Mindanao

Prima di addentrarsi nell’intricato groviglio che è il Medio Oriente, bisogna fare una fermata solo in apparenza singolare.

Nella primavera del 2017, infatti, si è verificato nell’isola di Mindanao, nelle Filippine, uno strano episodio che riconduce allo Stato Islamico, nonostante la grande distanza fisica che separa quest’isola dal Medio Oriente.

L’isola filippina è stata protagonista di una sorprendente offensiva armata che si è conclusa con la cattura della capitale di Mindanao, Marawi (200 mila abitanti), da parte di una coalizione di gruppi islamisti che hanno successivamente giurato la loro lealtà allo Stato Islamico.

Va detto che la zona sud dell’arcipelago è scenario di un vecchio conflitto islamico che ha provocato negli ultimi quarant’anni 100-150 mila morti. E già nel 2014 l’organizzazione wahabita Abu Sayyaf (Padre della Spada) aveva giurato fedeltà all’ISIS (Calvo, 2017).

L’azione contro Marawi è stata interpretata inizialmente come un problema interno, relazionato alla presunta presenza del leader di Abu Sayyaf (che sarebbe stato in città per ricevere cure mediche). I grandi media internazionali hanno ignorato la notizia per settimane. Vale la pena sottolineare che a Mindanao la popolazione musulmana raggiunge il 90%, mentre è una minoranza religiosa che rappresenta il 6% della popolazione nella totalità del Paese-arcipelago (22 milioni di abitanti).

Diversi analisti hanno cominciato a lanciare segnali di preoccupazione per alcuni dettagli che inducono a un’altra lettura e interpretazione di quell’azione armata. La cattura di Marawi (e di molte località del suo intorno) è stata oggettivamente sorprendente: frutto di una preparazione minuziosa e attenta e di un operativo (in termini di uomini, armi e denaro) trasferito dall’Indonesia, dove si concentra la popolazione musulmana più grande del mondo.

La battaglia a Mindanao è durata quasi tre mesi: le truppe governative hanno avuto serie difficoltà (e molti morti) a riprendere il controllo della situazione. Alla fine hanno sconfitto il gruppo islamico, ma è evidente che si è trattato di un’azione estremamente ben preparata. Questo ha fatto emergere l’ipotesi che davvero l’ISIS sia in una fase di riorganizzazione e stia pensando (e agendo) di assicurarsi alcuni territori “liberati” che dovrebbero fungere da retroguardia. Qui le milizie islamiche potrebbero ritirarsi e avere il tempo di ristrutturarsi viste le ultime sconfitte riportate in Iraq e in Siria.

È prematuro fare considerazioni definitive, ma se questa interpretazione sarà confermata significa che siamo in presenza di un’organizzazione, l’ISIS, che continua a mantenere un’alta capacità internazionale di comunicazione, pianificazione e logistica e che gode di punti di appoggio fermi in altre zone, fuori dal Medio Oriente.

 

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Riportare i diritti nel lavoro. Leggi qui la prefazione di Susanna Camusso al 15° Rapporto

Il vecchio che avanza. Leggi e scarica qui l’introduzione di Sergio Segio al 15° Rapporto

La presentazione alla CGIL di Roma

Qui la registrazione integrale della presentazione alla CGIL di Roma del 27 novembre 2017

Qui le interviste a Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Marco De Ponte, Francesco Martone

Qui notizie e lanci dell’ANSA sulla presentazione del 15° Rapporto

Qui il post di Comune-Info

Qui si può ascoltare il servizio di Radio Articolo1 curato da Simona Ciaramitaro

Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37

Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21

Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018

Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto

Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018



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