Rapporto Censis. Senza furore, con il virus della sfiducia avanza l’uomo forte

Rapporto Censis. Senza furore, con il virus della sfiducia avanza l’uomo forte

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Nel 53esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma, il Censis mescola come sempre le categorie dell’analisi psicologica con quelle dei rapporti sociali ispirate al tema del disagio della civiltà, un mezzo con il quale comprende la società italiana, invece di essere un oggetto che deve elaborare districando la confusione tra l’uomo psicologico e quello sociale come ha invitato a fare il sociologo Alain Ehrenberg nel bel libro «La società del disagio».

Nell’edizione di quest’anno il centro studi parla di un paese «in ansia», preda di una «sindrome da stress post-traumatico», o «stress esistenziale», causati dal fatto che l’«ansia» non riesce più a «trasformarsi in furore» e ciò comporta oggi «un prezzo da pagare»: «un virus si annida nelle pieghe della società: la sfiducia». Il «furore» sarebbe «scomparso dai volti», mentre l’incertezza è lo stato d’animo dominante. «Furore» è un concetto che risuona in questi mesi anche grazie alla rilettura teatrale del folgorante libro omonimo di John Steinbeck sull’esodo della famiglia Joad dall’Oklahoma alla California a causa della grande crisi seguita al 1929 negli Usa.

LA CRISI di una «società ansiosa di massa macerata dalla sfiducia» ha portato, sostiene il Censis, a individuare «stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro» e a «pulsioni anti-democratiche» che avrebbe portato il «48 per cento degli italiani» ad essere favorevoli all’«uomo forte al potere» che non debba preoccuparsi del Parlamento e delle elezioni. Tale «pulsione», sempre che di questo si tratti e non di una costruzione sociale e mediatica presentata come «naturale», sarebbe diffusa in maggioranza «tra le persone con redditi bassi» e tra «i soggetti meno istruiti» e fino «al 67%» tra gli operai.

Una descrizione che mescola l’idea di diagnosi con quella di un’analisi dello spettro sociale basato su una rilevazione statistica impressionistica dalla quale emerge anche che il «76% non ha fiducia nei partiti» e che il «74% degli italiani si è sentito molto stressato per questioni famigliari, per il lavoro o senza un motivo preciso. Al 55% è capitato talvolta di parlare da solo in auto, in casa». Uno stato d’ansia che riguarda in stragrande maggioranza «chi appartiene al ceto popolare».

La causa sembra essere la crescita delle diseguaglianze. Due giorni fa l’Istat, ricorrendo ai più tradizionali strumenti dell’analisi del metodo Gini ha ribadito che le famiglie più abbienti hanno accumulato una ricchezza sei volte superiori rispetto a quelle povere negli anni della crisi. In questo caso si ragione più sugli effetti. Sfogliando «Furore» di Steinbeck a questo proposito si legge: «Se foste capaci di distinguere le cause dagli effetti, di persuadervi che Paine, Marx, Jefferson, Lenin furono effetti e non cause, allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolutamente capaci. Perché il possesso vi congela in altrettanti “io” e vi aliena i “noi”».

E quando si forma una società dell’«Io» è anche possibile che la rappresentazione della crisi porti a scambiare in un altro senso gli effetti con le cause, spingendo a credere a involuzioni autoritarie. Ciò può arrivare a coinvolgere anche una proiezione dei «ceti popolari» e chi analizza i rapporti sociali con la lente della tesi del «disagio». «Assistiamo – scrive Ehrenberg – a un duplice movimento solidale in senso inverso: la de-istituzionalizzazione dei rapporti sociali in un senso, la loro psicologizzazione nell’altro».

NEL QUADRO di una società degli individui in crisi il Censis registra che «la costruzione di relazioni significative avviene nella vita quotidiana: fuori dai grandi progetti di mobilità sociale e dagli investimenti sul futuro professionale o familiare, ma dentro circuiti di costruzione identitaria legati alla coltivazione delle passioni». Cresce il volontariato e la nuova sensibilità «ai problemi del clima, della qualità ambientale e della tutela del territorio». La mobilitazione sull’ambiente, sostenuta in primo luogo dal movimento «Fridays for future», «appare un processo strutturale, tanto economico quanto sociale». Insieme ad altre mobilitazioni, in primo luogo quelle transfemministe di «Non una di meno», in campo da anni, questi segnali potrebbero anche aiutare a tracciare un quadro meno «disincantato» sull’opposizione crescente alle politiche razziste e autoritarie o rispetto all’inazione della «politica» su questioni decisive come l’ecologia politica o il contrasto al capitalismo ecocida, ad esempio.

TRA I NUMEROSI elementi di analisi forniti dal Censis c’è anche il riferimento all’invecchiamento della popolazione e alla denatalità descritta come uno «tsunami demografico, oltre che la fuga in particolare dei giovani dal Sud. C’è anche la definizione di «bluff» dell’occupazione che cresce, ma non produce né reddito, né crescita. È il fenomeno registrato negli ultimi anni, anche dal Jobs Act in poi: la crescita del part-time involontario e dei contratti precari a breve e brevissimo termine. Ci sono gli effetti, e poi anche le molteplici cause

* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto

 



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