Libano. Tra le rovine di Beirut e della sanità pubblica avanza il Covid-19

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Allarme di Medici Senza Frontiere: «Una crisi sanitaria come nella guerra civile (1975-90)», dichiara Mego Terzian, presidente franco-libanese di Msf in Francia. «Ci furono bombardamenti su depositi di petrolio non lontani dal porto. Scene simili. La città fu completamente devastata, la gente vagava per le strade, ferita, disperata, senza sapere dove andare».

Saltato il lockdown dal 30 luglio al 10 agosto, l’inefficiente sistema sanitario libanese si è trovato con l’esplosione davanti a un’emergenza nell’emergenza. Ovviamente senza nemmeno immaginare di poter operare con le dovute misure di protezione, con tre ospedali chiusi e altri danneggiati in seguito alla deflagrazione al porto di Beirut che martedì 4 agosto alle ore 18.08 ha devastato la città causando circa 200 morti, 6mila feriti, 300mila sfollati e danni incalcolabili.

Non si fa in tempo a registrare un record di casi Covid-19, che il giorno dopo viene superato. Ieri 292 e due morti. La devastazione, l’afflusso negli ospedali, le manifestazioni fanno prevedere il peggio nei prossimi giorni.

LA SANITÀ LIBANESE, emblema di quel processo di privatizzazioni in chiave neoliberista avvenuto negli anni della ricostruzione post bellica, come tutti i settori vitali è stata fortemente privatizzata. Con la crisi, molti ospedali privati hanno o chiuso o ridotto la loro attività, per mancanza di fondi statali, senza contare i continui disagi dovuti alla mancanza di elettricità, altro capitolo nero del malgoverno libanese.

Il 30 luglio Firas Abiab, a capo del Rafiq Hariri, l’ospedale più attrezzato contro il Xovid, prevedeva già il collasso del sistema sanitario che si avviava verso «l’occhio del ciclone».

MSF PARLA OLTRE che dei danni fisici, di quelli psicologici. Già nei mesi scorsi varie organizzazioni locali, tra cui Embrace che aveva istituito un numero verde, avevano denunciato l’incremento dei casi di depressione e suicidio dovuti alla crisi economica. Il Libano è una bambola russa. C’è sempre un problema nel problema.

Non si conosce ancora il numero dei lavoratori migranti morti o feriti nell’esplosione. Nessuno li reclama. La loro situazione si aggrava, in un paese in cui gli ultimi erano e sono sempre di più gli ultimi. Il Sistema Kafala, diffuso nei paesi del Golfo, nella penisola araba e in Libano, è un sistema di schiavitù moderna. Kafala vuol dire in arabo fideiussione: il datore di lavoro si fa garante del migrante e tanto basta nella maggioranza dei casi per sequestrare il suo passaporto e avere il controllo assoluto sulla sua vita.

Per lo più si tratta di ragazze, donne che lavorano come domestiche per salari da 150 a 400 dollari per 24 ore di lavoro al giorno. È comunissimo – visti anche i costi – avere una o più domestiche. Le ong denunciano abusi e violenze di ogni tipo, fisiche, psicologiche, sessuali, e un alto tasso di suicidi tra i migranti. Tutte le stime sono comunque al ribasso, per la natura stessa della violenza domestica. Ci sono vere e proprie categorie: africane e cingalesi più economiche, filippine per le case dei ricchi. Meglio non toccare il tema razzismo.

CON LA CRISI e la svalutazione della moneta, oggi all’80%, le ragazze fortunate sono state pagate in lire libanesi (rendendo loro impossibile mandare soldi alle famiglie), il resto o non pagate o buttate letteralmente in strada. Le ong This is LebanonAnti-Racism e Egna Legna promuovono ora una raccolta fondi per il rimpatrio immediato dei migranti, centinaia di migliaia, burocraticamente difficile a causa del Kafala. In migliaia affollano le ambasciate o i ricoveri di fortuna. Sono praticamente intrappolati in Libano, non hanno copertura medica e i test Covid sono a pagamento. Oltre al dramma personale e sociale, il pericolo sanitario.

Sul fronte politico, nella giornata di ieri Macron ha intimato all’Iran di non interferire negli affari interni al Libano, ma di collaborare per la formazione di un governo di missione. Russia e Arabia Saudita creeranno «condizioni favorevoli» e Netanyahu si è complimentato con il presidente francese per il suo operato. Ha ricordato gli aiuti offerti e rifiutati e attaccato Hezballah: «Se credono di risolvere la crisi in Libano creandone una con Israele si sbagliano».

L’Italia è invece rimasta un po’ in sordina durante questi giorni, nonostante i consolidati rapporti commerciali, politici e culturali tra i due paesi. Conte si recherà forse in Libano dopo ferragosto e l’ambasciatrice Bombardiere, da due giorni in vacanza al momento dell’esplosione, è tornata solo l’11 con un carico di aiuti.

IL PORTO DI BEIRUT ha ripreso in queste ore parzialmente le attività, mentre è oggetto di speculazione politica il ruolo che avranno i porti di Tripoli e Saida. Con il passare dei giorni il Libano si risveglia da uno choc e si ritrova in un incubo.

* Fonte: Pasquale Porciello, il manifesto



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