Washington quindi si schiera contro la «conclusione definitiva» raggiunta dall’inchiesta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani secondo la quale «Tutte le informazioni che abbiamo raccolto – comprese quelle ufficiali dell’Esercito israeliano e del procuratore generale palestinese – sono coerenti con la constatazione che i colpi che hanno ucciso Abu Akleh e ferito il suo collega Ali Sammoudi provenivano dalle forze di sicurezza israeliane e non dal fuoco indiscriminato di palestinesi armati».

Con il classico un colpo alla botte e uno al cerchio, l’Amministrazione Usa da un lato sottrae Israele alle sue responsabilità – l’esercito dello Stato ebraico potrà  affermare che non si può escludere al cento per cento che la giornalista sia stata uccisa da un palestinese – e dall’altro, sostenendo che «la giornalista è stata colpita probabilmente da posizioni israeliane», accontenta l’Autorità nazionale palestinese (Anp) che, da parte sua, ora si prepara a dare il benvenuto a Ramallah, tra una decina di giorni, al presidente Joe Biden in visita in Medio oriente. Ieri sera il segretario dell’Olp, Hussein al Sheikh, ha fatto la voce grossa affermando «Non consentiremo tentativi di nascondere la verità o di fare solo riferimenti timidi quando si punta il dito di accusa verso Israele…Il governo dell’occupazione è da ritenersi responsabile per l’assassinio di Abu Akleh».

Quindi ha annunciato «Porteremo avanti le nostre procedure nelle Corte internazionali». Ma sono dichiarazioni dovute e poco convinte. I palestinesi avevano accolto con disappunto, nel fine settimana, la decisione dell’Anp di consegnare agli Stati uniti il proiettile. Prevedevano che gli Usa avrebbero poi fatto ricorso a una posizione ambigua per non esporre Israele a un’inchiesta della magistratura internazionale sull’accaduto.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto