A Parigi manifestazione pacifica, ma la polizia francese attacca

Quest’anno la prefettura aveva vietato l’assembramento in memoria di Adama Traoré. In piazza sfilano le famiglie delle vittime delle forze dell’ordine. Presenti anche il sindacato Cgt, Verdi, Insoumis, Attac e altre associazioni. Il corteo in memoria del ragazzo ucciso dai gendarmi finisce con l’intervento pesante della Brav-M
Parigi. La manifestazione in memoria di Adama Traoré, ucciso dalla polizia il 16 luglio 2016 nella caserma di Persan, un paesino della periferia di Parigi, sta terminando con tranquillità. Non era scontato: giovedì la prefettura ne aveva vietato lo svolgimento, nonostante da sette anni la marcia organizzata dal Comité Adama si sia sempre svolta nella calma più assoluta.
In risposta al divieto imposto dalle autorità di marciare a Persan e nel comune limitrofo di Beaumont-sur-Oise, il Comité Adama e la sua leader, Assa Traoré, sorella del ragazzo, hanno fatto appello a recarsi a République, nel cuore di Parigi.
D’un tratto, dei poliziotti della Brav-M accerchiano un gruppetto di giovani del Comité Adama, che si stanno disperdendo con calma. Ne puntano uno: lo circondano, caricano il resto manganellando e tirando calci, arrestano il loro bersaglio. Un agente appoggia la gamba sul collo di Youssouf, fratello di Assa Traoré: un gesto che richiama alla mente le immagini di George Floyd a Minneapolis, così come i verbali della detenzione di Adama Traoré. «Non riesco a respirare», disse quest’ultimo ai gendarmi di Persan nel 2016, secondo le loro stesse dichiarazioni al processo. Youssouf, lui, uscirà poche ore dopo dal commissariato del 5o arrondissement di Parigi su di una barella – vivo, per fortuna. Per Assa invece partirà un procedimento giudiziario per manifestazione non autorizzata.
Un arresto arbitrario e violento, una privazione ingiustificata delle libertà, un prigioniero in barella, il tutto alla fine di una manifestazione pacifica contro le violenze della polizia: difficile immaginare una scena più rappresentativa dello stato della polizia francese e del suo rapporto con la società.
LA GIORNATA, inizialmente, era stata un successo per i movimenti delle famiglie delle vittime della polizia che l’hanno organizzata, assieme al Comité Adama. «Giustizia per Alassane», «Verità per Claude-Jean Pierre», «Mahamadou», «Adama»… I nomi sulle magliette rappresentano ciascuno un morto, ucciso dalle forze dell’ordine in questi anni. Letti assieme, indossati da persone fisiche – parenti, amici – danno l’impressione di una costellazione di lutti e di collere, resi ancora più tragici dalle date che accompagnano i decessi.
C’è chi aspetta giustizia dal 2001, come Mahamdou, morto nel 18o arrondissement parigino inseguito dalla polizia; chi dal 2007, quando Lamine Dieng morì asfissiato in un furgone della polizia a Parigi; chi dal 2016, appunto, quando Adama Traoré uscì morto dal commissariato di Persan.
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Attorno alle famiglie, c’è anche tutto un pezzo di sinistra giunta a dare manforte. Ci sono i sindacati come la Cgt, ci sono i partiti come i Verdi e gli Insoumis, le associazioni come Attac. Davanti alla folla, accanto ad Assa Traoré, il deputato della France Insoumise Eric Coquerel traccia un «bilancio impietoso» dell’ultimo anno di presidenza di Emmanuel Macron, fondato sulla «violazione del diritto costituzionale di manifestare» e sull’uso smodato «della violenza della polizia… Cosa vuole il governo, se non provocare?».
Mentre le scarpe dei parlamentari e delle famiglie delle vittime s’inzuppano nella fontana al centro della piazza, la polizia si avvicina pericolosamente alla folla. Un compagno storico del Comité Adama sollecita il servizio d’ordine a partire in corteo: «Qui ci chiudono come piccioni», dice. Il corteo si forma, riparte verso Gare de l’Est, dove poi Assa Traoré chiuderà con un comizio dal tetto di una pensilina dell’autobus.
L’ALTO COMMISSARIATO delle Nazioni Unite per i diritti umani, per bocca del suo portavoce Ravina Shamdasani, ha dichiarato il 30 giugno che la Francia «deve occuparsi seriamente dei profondi problemi di razzismo tra le forze dell’ordine ». I rappresentanti dell’Onu hanno invitato «le autorità a prestare attenzione al ricorso della forza da parte della polizia» nel corso delle manifestazioni, «rispettando sempre i principi di legalità, necessità e proporzionalità».
Parole che la diplomazia francese ha respinto al mittente con un malcelato fastidio. «La Francia contesta degli argomenti che giudica eccessivi», si legge in un comunicato del ministero degli Esteri, «ogni accusa di razzismo sistemico delle forze dell’ordine in Francia è infondata». Un’attitudine che definire poco costruttiva è un eufemismo, ma che rispecchia quella dei sindacati della polizia, uno degli ostacoli principali a qualsivoglia riforma della polizia.
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DOPO LA MORTE DI NAHEL e una prima, timida condanna da parte di Macron, il più grande sindacato della polizia francese, Alliance, aveva dichiarato che i poliziotti erano «in guerra» contro «orde di selvaggi», minacciando di «entrare in resistenza» contro il governo. Lo stesso sindacato – assieme ad altre organizzazioni della polizia – aveva manifestato nell’estate del 2020 contro la decisione del ministro degli Interni dell’epoca, Christophe Castaner, di vietare lo «strangolamento», una tecnica utilizzata dagli agenti per soffocare una persona durante l’arresto. Lo «strangolamento» (clé d’étranglement) ha provocato almeno dieci vittime dal 2007, secondo Mediapart. In seguito alle proteste dei sindacati, la tecnica è stata mantenuta, al contrario del ministro, che è stato rimpiazzato dall’attuale titolare degli Interni, Gérald Darmanin.
* Fonte/autore: Filippo Ortona, il manifesto
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