Il Piano per l’Energia moltiplica il business delle multinazionali del fossile

Il Piano per l’Energia moltiplica il business delle multinazionali del fossile

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Ecco l’atteso Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (Pniec) 2023. Doppio guadagno per le compagnie Oil&Gas e l’Italia come pattumiera della CO2 mediterranea

 

Finalmente, eccolo, il tanto atteso Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) 2023. Un corposo documento che richiede un attento esame, ma che a una prima veloce lettura rivela subito le impronte delle multinazionali del fossile. Già, perché gli obiettivi di decarbonizzazione richiesti dall’Europa si raggiungono grazie a un corposo contributo della tecnica della cattura e stoccaggio sottoterra della CO2 (CCS, Carbon Capture and Storage). Cioè, invece di non emetterla utilizzando fonti rinnovabili di energia, si continua in parte a bruciare combustibile fossile e la CO2 prodotta si sotterra, e così non va in atmosfera.

DA NOTARE CHE la comunità scientifica ha forti perplessità in merito alla sicurezza e alla affidabilità di questa soluzione tecnologica, che è anche intrinsecamente insostenibile, in quanto centrata sul principio estrai-produci-usa-getta che è la causa prima della crisi ambientale. E poi ci sono i costi, molto elevati, che non si ripagano se non ci sono contributi pubblici. Le compagnie Oil&Gas spingono molto questa tecnologia perché se si afferma possono continuare a estrarre, vendere e fare usare il loro prodotto, e in più fare pagare anche il sotterramento del rifiuto che ne deriva, la CO2. Infatti sono loro stesse ad avere la capacità tecnologica di estrarre la CO2 dai fumi di combustione, liquefarla e pomparla sottoterra. Doppio guadagno, e addio transizione alle fonti rinnovabili. Anzi triplo, o quadruplo guadagno, perché se – come intendono fare – la CO2 si pompa in un giacimento di idrocarburi esausto, si spreme tutto quel petrolio o gas che è ancora rimasto e che non viene fuori da solo, e questo “succo” si vende. Si vende e naturalmente poi si usa, producendo quindi altra CO2 e vanificando in parte il precedente sotterramento. Ma la convenienza non sta solo in questo.

I POSTI IN CUI la CO2 oggi si può sotterrare non sono dappertutto. Quindi bisogna estrarre la CO2 nel luogo di produzione, convogliarla in apposite tubazioni, che vanno costruite, e inoltre, se il cimitero (il luogo di sotterramento) è oltremare, usare apposite navi. Un business fantastico, tanta roba da costruire che costa tantissimo, con l’obiettivo di fare pagare la collettività. Si sapeva già dell’intenzione dell’Eni di usare i giacimenti esausti dell’Adriatico per pomparci dentro CO2, si legge nel suo piano strategico, ma il PNIEC delinea un progetto di ben più ampia dimensione. Disvela un piano volto a fare dell’Italia non solo un hub per il metano, estratto in Africa e nel Medio Oriente per trasferirlo ai vari Paesi europei (così come annunciato dal governo), ma anche hub per la CO2. Si parla di flussi di CO2 provenienti da altri paesi dell’area mediterranea, nell’ambito del progetto Callisto che, testualmente: «coinvolge l’Italia lungo l’intera filiera CCS, fornendo un impegno significativo per lo sviluppo delle infrastrutture per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 in Italia. In questo progetto, l’Italia è il Paese destinatario delle emissioni di CO2 di altri Paesi, diventando il perno della filiera attraverso il suo sito di stoccaggio geologico nel Mare Adriatico». Proprio una bella idea: Italia pattumiera della CO2 mediterranea. Insomma, non solo dovremmo rinforzare la rete di trasporto del gas come hub europeo contando sul fallimento del Green deal europeo (anzi provocandolo), ma dovremmo anche costruire una nuova rete, per il trasporto della CO2. Il tutto contro l’obiettivo di finirla col fossile, per sempre.

Per non dire che le inevitabili perdite di metano alla estrazione e lungo la rete costituiscono un significativo contributo al riscaldamento globale, e se il gas continua a fluire per bruciarlo e poi sotterrare la CO2, le perdite continuano ad esserci.

MA NON C’È SOLO questo nel PNIEC. Se da una parte sembra centrare gli obiettivi imposti dall’Europa in relazione alla quota di energia elettrica rinnovabile da produrre, è in difetto sul lato riduzione delle emissioni di CO2, e per questo conta di ricorrere alla CCS: invece di ridurle le sotterra. Infatti minima è la riduzione delle emissioni prevista per l’industria non energetica, perché non è presa in considerazione la messa in atto dell’economia circolare, secondo la quale i prodotti devono essere progettati e realizzati in modo da avere il minimo di emissioni incorporate, essere durevoli, riparabili, riusabili, rigenerabili e, infine, riciclabili. Il PNIEC interpreta invece l’economia circolare come semplice riciclo, e a questo fa riferimento, mentre la messa in atto della “vera” economia circolare implica una riduzione della produzione a favore della manutenzione, e se si produce meno, si emette meno CO2, e senza danno alle attività economiche e all’occupazione. E si può fare a meno della CCS.

RIDURRE LA PRODUZIONE di beni di consumo, cioè ridurre il consumismo, fra l’altro, induce una minore movimentazione di merce, con conseguente impatto positivo sulle emissioni dei trasporti. Settore questo che vede pure l’impronta delle multinazionali del fossile, perché si promuovono i biocarburanti, che la letteratura scientifica (e la Commissione Europea) condanna senza esitazioni per il loro elevato impatto ambientale e sociale.

* Fonte/autore: Federico Butera, il manifesto

 

 

 

ph by The joy of all things, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons



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