«È la prima volta in 3500 anni che non ci saranno armeni in Nagorno-Karabakh» dice sconsolata Ani, osservando il serpente metallico che si inerpica sulla collina di Kornidzor dalla dogana.

Ognuno qui può raccontarti di un antenato morto tra il 1915 e il 1919, gli anni del genocidio perpetrato dai turchi, di una casa persa, di una vita ricostruita lontano. Si consideri solo che si stima che vivano più armeni o loro discendenti all’estero che in patria, dove a malapena sfiorano i 2,8 milioni. Ma fino alla settimana scorsa si trattava di ricordi del passato che, per quanto dolorosi e ancora vividi in tutta la società e tra l’intellighenzia armena, rimandavano a più di un secolo fa.
Oggi, in questo stesso momento, migliaia di armeni in fuga dall’enclave indipendentista dell’Artsakh sono in coda al confine, a poca distanza dalla tristemente famosa Lachin, che dà il nome alla strada chiusa da mesi dall’embargo azero. Hanno abbandonato le proprie case, gli averi, i campi, i progetti e hanno messo tutto il possibile in una macchina. Il che, va da sé, è niente; ma almeno sono vivi.

QUELLI CHE SONO RIUSCITI a entrare, ospiti degli hotel di Goris o in attesa di carburante a Kornidzor, sono già stanchi dei giornalisti, parlano malvolentieri. Quando lo fanno però le loro storie sono terribili. I racconti che seguono sono un primo tentativo di raccogliere le testimonianze degli abusi e delle violenze subite dai civili armeni del Nagorno-Karabakh, così come me li hanno riferiti. In attesa che un’istituzione indipendente o un tribunale internazionale faccia luce su quanto sta avvenendo a Stepanakert e negli altri centri della regione.

«È una bugia che gli azeri stavano solo sparando ai soldati… hanno ammazzato una donna, come possono dire che sparavano solo ai militari». Ci racconta Margarit Sahakyan, una maestra elementare di Martakert, all’Hotel Goris. «Questa donna ha salvato i suoi quattro bambini, li ha lasciati nel camion, ma non è riuscita a scappare e l’hanno uccisa. Teneva in mano una pistola? Sparava a qualcuno? La madre di quattro bambini!».

MARGARIT CONTINUA: «Quando abbiamo passato l’ultimo check-point azero i militari sono saliti sull’autobus e hanno terrorizzato i bambini, alcuni non la smettevano di tremare, dicevano “non voglio morire”. Però l’immagine più tragica che ho ancora di fronte agli occhi è quella di un bambino di 14 anni che mi chiede ‘zia margot (questo il nome che le davano nel villaggio per il suo ruolo di maestra), “questa nel video è mia mamma?” Le stavano facendo di tutto e poi l’hanno uccisa. Il fatto che qualcuno ha avuto il coraggio di girare un video mentre tutto ciò accadeva, come se fosse uno spettacolo, è disgustoso. Forse pensavano fosse divertente».

Il video non l’abbiamo visto e non sappiamo ancora il cognome della donna, ma stiamo lavorando per ritrovare entrambi. Nei mesi dell’embargo sono circolati online diversi video di violenze ingiustificate ai danni degli armeni.

Lo scorso settembre, per citare un solo caso, in seguito a un attacco delle forze azere sul territorio armeno (non nel Karabakh, ma entro i confini di Erevan) i soldati azeri entrarono in un avamposto armeno e tra i militari trovarono una donna soldato, il video delle sevizie e della successiva decapitazione della donna è ancora disponibile in rete, quindi non è affatto strano che esista un filmato come quello che racconta Margarit.

DURANTE IL RACCONTO, un’anziana di nome Seda Lazaryan che era stata in piedi in silenzio ad ascoltare, interviene: «Al villaggio abbiamo avuto nove soldati morti e una donna (la stessa del precedente racconto, ndr) catturata, seviziata e poi uccisa. Oltre al video, ci sono 12 uomini del villaggio che erano rimasti per permetterci di fuggire, l’hanno vista morta dopo che i soldati azeri si sono allontanati». Com’è stata catturata? «Stavamo scappando con i camion, io ero dentro, e quella donna ha portato i suoi quattro bambini da noi e poi è tornata indietro, non so perché. So solo che non è mai tornata da noi. E poi i bambini hanno visto su internet cosa avevano fatto alla madre. Ai bambini raccontavamo che la madre sarebbe tornata, ma poi il maggiore ha visto il video, ha iniziato a piangere e tutti gli altri si sono uniti nel pianto. Ora sono con la nonna».

«CI HANNO BOMBARDATO la casa – racconta Anna -, la nostra bella casa, ci avevamo messo 7 anni per costruirla». Anna viene da un villaggio vicino Goris, 10 anni fa si è sposata con un uomo del Nagorno-Karabakh e si sono trasferiti lì, hanno due bambini che le restano attaccati mentre parla. «Vicino a casa mia non c’è niente, solo alberi… dicono che hanno bombardato solo strutture militari ma allora la mia casa?».

Il marito armeggia nervoso con il motore della vecchia Lada Zigulì blu, «non parte?» gli chiedo perché sembra che sia infastidito dalla nostra presenza. «Manca solo la benzina» e si volta. Quando Anna ci mostra una foto della casa appena finita, però, si avvicina: «Guarda il tetto, nuovo, l’avevo costruito io» dice fiero. «Volevano che ce ne andassimo, che non avessimo posti per restare, questa è la verità» conclude Anna quasi piangendo.

Quando un giornalista di Politico ha detto all’inviata degli Stati Uniti Samantha Power «ma tutto ciò che dice dipinge esattamente il quadro di una pulizia etnica», la funzionaria ha mosso leggermente il capo, sembrava che volesse dire «è ciò che intendevo», ma poi si è profusa nelle classiche perifrasi dei diplomatici.

IERI FRANCIA E GERMANIA hanno chiesto ufficialmente alle autorità azere di lasciare entrare gli osservatori internazionali. Sembra che l’Occidente abbia effettivamente paura che qualcosa di terribile stia accadendo nel «giardino nero» del Caucaso e quelle stesse parole che tra gli armeni si passano di bocca in bocca siano i segni di una realtà in divenire più che un ricordo sepolto nel passato.

* Fonte/autore: Sabato Angieri, il manifesto