COP28. Tra scandali, defezioni e lobbisti il vertice di Dubai parte male

COP28. Tra scandali, defezioni e lobbisti il vertice di Dubai parte male

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Pesano l’assenza a sorpresa di Biden e la defezione annunciata di Xi, il presidente Al Jaber a capo delle compagnia petrolifera emiratina. I paesi conservatori non vogliono che nella risoluzione finale si menzionino i combustibili fossili. Tra i nodi caldi il loss&damage, per risarcire i Paesi più colpiti dalla crisi climatica. Al posto del papa, influenzato, andrà il segretario di stato Parolin, ma non è la stessa cosa

 

Defezioni, scandali, boicottaggi. La Cop28 di Dubai, che ha inizio in queste ore, sta diventando un problema di credibilità per l’intero processo negoziale sul contrasto al riscaldamento globale a guida Nazioni Unite. E si configura sempre più come la Cop della reazione fossile.

Le Cop (acronimo di Conference of Parties), sono incontri annuali promossi dall’Unfccc, la Convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici cui hanno aderito tutti i paesi del Pianeta. Si tengono ogni anno in una location diversa, e la nazione ospitante ottiene automaticamente anche la presidenza di turno.

LA VENTOTTESIMA edizione che ha inizio oggi a Dubai dovrà affrontare diversi temi chiave. Molto del negoziato si giocherà sulle parole usate: il blocco dei paesi più conservatori non vuole che si menzionino i combustibili fossili nella risoluzione finale.

Alla Cop26 di Glasgow, nel 2021, si nominò per la prima volta il carbone, ma i paesi che ne sono più dipendenti – soprattutto Cina e India – ottennero che si parlasse di riduzione dell’uso, non di eliminazione, e soprattutto che ci si riferisse ai soli impianti unabated, cioè non accompagnati da sistemi di cattura e stoccaggio della Co2. Sulla presenza o meno della locuzione «combustibili fossili» nel documento finale, e sulla differenza tra riduzione ed eliminazione, si aspettano duri scontri.

LA SECONDA QUESTIONE sul tavolo è quella del loss&damage. Si tratta del principale lascito dell’edizione precedente, la Cop27 di Sharm el-Sheik, e di un tema relativamente recente nei negoziati. Da tempo i paesi del cosiddetto sud globale – Africa, America Latina, Sud-Est asiatico – chiedono che siano le nazioni più industrializzate a pagare per i danni che già oggi la crisi climatica sta causando.

L’anno scorso si raggiunse a sorpresa un accordo di massima, grazie soprattutto al peso negoziale della Cina, grande sponsor dell’iniziativa. Ma su chi debba mettere i soldi, a quanti paesi vadano, chi gestisca questi flussi di denaro, non c’è ancora chiarezza.

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I negoziati intermedi hanno visto contrapporsi da un lato le nazioni a basso reddito, che chiedono di ampliare la platea dei riceventi e di affidare i fondi ad una istituzione ad hoc.

Dall’altro i paesi occidentali, su tutti gli Stati Uniti, che vorrebbero far gestire il processo alla Banca Mondiale e concedere l’accesso al minor numero possibile di nazioni. Dubai potrebbe essere il luogo adatto a trovare un compromesso.

I PUNTI SUL TAVOLO sono insomma molti. Ma Cop28 sembra aprirsi già stanca, travolta dalle polemiche e disertata da alcuni leader chiave. Di certo non ha aiutato la presidenza in mano agli Emirati Arabi Uniti, una nazione che ha fondato la sua ricchezza sul petrolio.

Il presidente designato, Sultan Al Jaber, è anche ceo dell’Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia estrattiva di stato emiratina, e di Masdar, società specializzata in energie rinnovabili. Un petroliere a capo dei negoziati sul clima, una prima volta inquietante. Specie dopo che la Bbc ha rivelato, in uno scoop di pochi giorni fa, che Al Jaber avrebbe usato gli incontri preparatori della Conferenza per trattare nuovi accordi relativi ai combustibili fossili per conto della sua azienda. L’interessato nega e parla di accuse «false, scorrette e imprecise», ma lo scandalo ormai è scoppiato.

E la presidenza non è l’unico punto debole del summit. Due anni di tensioni geopolitiche – dall’Ucraina a Taiwan passando per Gaza – hanno allontanato le grandi potenze mondiali. E senza il dialogo tra le principali capitali, su tutte Washington e Pechino, non esiste azione per il clima.

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L’INVIATO SPECIALE per il clima statunitense John Kerry ha incontrato il suo omologo cinese Xie Zhenhua poche settimane fa. Un segnale di apertura importante, ma messo in secondo piano dalla defezione di Xi Jinping, attesa, e di Joe Biden, inaspettata: nessuno dei due parteciperà al summit di Dubai.

Persino il Papa, che per la prima volta aveva annunciato l’intenzione di essere presente ad una Cop, non sarà della partita, al suo posto probabilmente andrà il segretario di Stato Pietro Parolin. La causa è un’influenza, ma il presagio non è dei migliori.L’Unione Europea poi, in altre occasioni attenta a presentarsi come capofila dell’azione climatica, sembra arrivare debole alla vigilia. La crisi energetica ha distratto i governi e indebolito il Green Deal, mentre il nuovo commissario incaricato dei negoziati, l’olandese Wopke Hoekstra, ha un passato come consulente di Shell.

GLI SCANDALI e la scarsa ambizione dimostrata dai governi hanno scoraggiato gli ecologisti, ma ringalluzzito il settore dei combustibili fossili. Secondo l’ong Global Witness erano 673 i lobbisti accreditati a Cop27. Quest’anno potrebbero essere ancora di più. Di certo c’è che, dopo una fase di accelerazione delle politiche di transizione, il summit di Dubai rischia di segnare un passo indietro, minando la credibilità dei negoziati promossi dalle Nazioni Unite. La Cop della reazione fossile, appunto.

* Fonte/autore: Lorenzo Tecleme, il manifesto

 

 

 

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