Ferita dall’attacco «barbaro» di Hamas, «la sola democrazia del Medio Oriente» ha il diritto di difendersi: tutti i nostri capi di stato e di governo sono andati in pellegrinaggio a Tel Aviv per assicurare Netanyahu del nostro sostegno incondizionato. Non si discute quando sono in gioco la morale e la civiltà. Nel 1896, Theodor Herzl, il padre spirituale di Israele, pubblicava Lo Stato degli ebrei, il testo fondatore del sionismo, in cui definiva questo futuro stato come «un bastione dell’Europa contro l’Asia, una sentinella della civiltà contro la barbarie». Nel 2023 i termini della questione non sono affatto cambiati.

IN UN’INTERVISTA ai media israeliani +972 e Local Call, un ufficiale di Tsahal è stato chiaro: i barbari di Hamas uccidono i civili e lanciano razzi alla cieca sulle città israeliane, nella speranza che non vengano intercettati e possano fare qualche danno. Tsahal incarna invece la civiltà: mica sgozza i civili; lancia bombe scegliendo i bersagli con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Ha elaborato un programma chiamato Habsora (Vangelo) che genera automaticamente i suoi obiettivi e funziona come una «fabbrica del massacro» (mass assassination factory). «Nulla accade per caso – spiega l’ufficiale – quando una bambina di tre anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema ucciderla, che era un prezzo da pagare per colpire un altro obiettivo. Noi non siamo Hamas. Questi non sono razzi casuali. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa». Ecco un esempio efficace di quella «razionalità strumentale» in cui Theodor W. Adorno coglieva appunto il nocciolo dell’Occidente. Dopo il 7 ottobre, la soglia di tolleranza dei «danni collaterali» è notevolmente aumentata e non si contano più i bambini morti sotto le bombe. I barbari di Hamas hanno barbaramente ucciso 1.200 israeliani, di cui 800 civili; Tsahal ha ucciso, ad oggi, 18.000 palestinesi, di cui non più di 3/4.000 combattenti di Hamas. Tutto è pianificato: la distruzione di strade, scuole, ospedali; l’interruzione o l’erogazione a singhiozzo di acqua, elettricità, gas, combustibile, internet; l’accesso degli sfollati al cibo e alle medicine; l’evacuazione di oltre un milione e mezzo di persone sui 2,3 milioni che vivono a Gaza verso il sud della striscia, dove sono nuovamente bombardate; le malattie e le epidemie. Ormai si pianifica l’eliminazione dell’intellighenzia palestinese: non solo i dirigenti di Hamas, ma medici, giornalisti, intellettuali e poeti. Molti osservatori dell’Onu presenti a Gaza hanno lanciato l’allarme: la popolazione palestinese è sottoposta a un massacro organizzato e implacabile, sradicata e privata delle più elementari condizioni di sopravvivenza. A Gaza, la guerra israeliana sta prendendo i tratti di un genocidio.

QUANDO NACQUE il mito orientalista, gli ebrei facevano parte dell’Occidente come ospiti non grati, esclusi, umiliati e disprezzati, sempre spinti ai margini. Dell’Occidente erano la coscienza critica. Oggi ne fanno parte a pieno titolo, ne sono anzi diventati il simbolo, amati e adulati da chi un tempo li stigmatizzava e perseguitava, e guardati con diffidenza nel Sud del mondo – odiati nel Medio oriente – da chi li considerava come compagni di sventura, uniti da un’evidente «affinità elettiva». In Europa, la lotta contro l’antisemitismo è diventata la bandiera dietro alla quale si coalizzano tutte le estreme destre neo- e postfasciste, pronte a manifestare contro la «barbarie islamica» prima ancora di essersi liberate del loro antico pregiudizio antisemita. La memoria dell’Olocausto è celebrata ritualmente come una religione civile dell’Unione europea e la difesa di Israele è diventata, come hanno ripetutamente affermato Angela Merkel e Olaf Scholz, la «ragion di stato» tedesca.

In nome di questa memoria si invoca il sostegno a uno stato che sta perpetrando un genocidio, con gli effetti devastanti che si possono immaginare per le nostre culture, le nostre memorie collettive e la nostra pedagogia democratica. Questo spiega perché, soprattutto negli Stati uniti, molti ebrei hanno levato la loro voce per dire «non in mio nome».

L’ATTACCO DI HAMAS del 7 ottobre è stato atroce e traumatico. Voleva essere tale e nulla lo giustifica, ma va interpretato e non soltanto deplorato. Il 7 ottobre è l’esito estremo di decenni di occupazione, colonizzazione, oppressione, umiliazioni e vessazioni quotidiane. Tutte le proteste pacifiche sono state represse nel sangue, gli accordi di Oslo sono sempre stati calpestati da Israele e l’autorità palestinese, del tutto impotente, agisce in Cisgiordania come un suppletivo di Tsahal. Israele si stava apprestando a «negoziare la pace» con tutti gli stati arabi sulle spalle dei palestinesi e l’obiettivo non celato di estendere ulteriormente le colonie in Cisgiordania. Improvvisamente, Hamas ha rimesso tutto in gioco, presentandosi come un attore del conflitto capace di attaccare e non soltanto di subire. La violenza palestinese ha la forza della disperazione. Non si tratta di condividerla ma occorre comprenderne le radici. Fino ad oggi, al contrario, ogni sforzo di comprensione è stato eclissato dalla condanna, una condanna assoluta e inderogabile trasformata rapidamente in pretesto per legittimare una guerra contro Gaza, ossia contro i civili palestinesi. Così, alla lettura orientalista del conflitto israelo-palestinese se ne è aggiunta un’altra, quella sionista: dietro all’attacco del 7 ottobre non ci sono decenni di oppressione e negazione dei diritti dei palestinesi; dietro all’attacco del 7 ottobre c’è l’antisemitismo, l’eterno e inestirpabile odio degli ebrei. L’attacco di Hamas è diventato un «pogrom», come se Hamas detenesse il potere e gli ebrei fossero una minoranza oppressa.

BENJAMIN NETANYAHU si era già distinto in un goffo tentativo di riscrivere la storia, spiegando che l’ispiratore di Hitler era stato il Gran Mufti di Gerusalemme e che Hamas – come un tempo Arafat – sarebbe la reincarnazione del nazismo. Esasperato da questa strumentalizzazione mitologica del passato così diffusa in seno alla destra sionista, lo storico israeliano Tom Segev aveva riscoperto le virtù dell’oblio. Di fronte a una memoria di Auschwitz così svilita e offesa, meglio l’oblio. Eppure, al di là delle analogie storiche sempre discutibili e approssimative data la differenza dei tempi, dei contesti e degli attori, la distruzione di Gaza da parte di Tsahal ricorda quella del ghetto di Varsavia raso al suolo dal generale Stroop; e i combattenti che sgusciano dai sotterranei per colpire un esercito di occupazione che li designa come «animali» non possono fare a meno di evocare i combattenti ebrei del ghetto. Il fatto che nelle bandiere di Tsahal ci sia una stella di David e non una svastica è terrificante, ma non le rende per questo innocenti.

NEL 1966, il festival di Venezia premiava con il Leone d’oro La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, un capolavoro entrato a far parte del canone della cultura postcoloniale. Una scena cruciale del film mostra delle donne algerine che, camuffate con trucco e abiti occidentali, vanno nei caffè preferiti dalla gioventù francese per posare delle bombe. L’assassinio dei civili, per quanto deprecabile e inaccettabile, è sempre stato l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche, usata dal Fln algerino, dall’Olp prima di Oslo, dai Vietcong che colpivano i bordelli di Saigon pieni di soldati americani, e anche dai terroristi dell’Irgun, gli antenati di Netanyahu, che posavano bombe contro i britannici a Gerusalemme prima della nascita di Israele. Stupisce che, mentre da un lato questa violenza «tellurica» della lotta partigiana suscita ormai orrore e condanna, la nostra epoca così inclina alla retorica dei «diritti umani» si è assuefatta alla violenza dei bombardamenti a tappeto, dei bersagli focalizzati su uno schermo, delle «bombe intelligenti», degli attacchi «chirurgici» che annientano città abitate da milioni di persone.

I nostri «diritti umani» servono soltanto a legittimare le nostre «guerre umanitarie». Da sempre, lo stupro è un’atroce e ignobile arma di guerra, ma siamo sicuri che le «bombe intelligenti» di Tsahal siano moralmente superiori? Non si tratta dell’ennesimo pregiudizio orientalista? È curioso, ma il romanzo della scrittrice palestinese Adania Shibli, Un dettaglio minore (2020), la cui premiazione è stata cancellata alla Fiera del libro di Francoforte da censori provvisti di alti principi morali, racconta lo stupro e l’uccisione di una ragazza palestinese ad opera di soldati israeliani durante la Nakba, nel 1949.

ROVESCIANDO LA REALTÀ, si è così disegnata una narrazione paradossale: da oppressore, Israele si è metamorfosato in vittima. Hamas vuole distruggere Israele; la sinistra antisionista è antisemita e nega a Israele il diritto di esistere; l’Occidente civilizzato non può permettere un nuovo Olocausto; l’anticolonialismo ha finalmente svelato la sua matrice antioccidentale, fondamentalista e antisemita. Questa propaganda ha il solo scopo di mascherare la realtà. Quel che oggi è in gioco non è l’esistenza di Israele ma la sopravvivenza del popolo palestinese. Se la guerra di Gaza dovesse concludersi in una seconda Nakba, sarà la legittimità di Israele a uscirne definitivamente compromessa. In questo caso né le armi americane, né i media occidentali, né la ragion di stato tedesca, né il ricordo travisato e offeso dei campi di sterminio potranno riscattarla.

* Fonte/autore: Enzo Traverso, il manifesto