L’arretramento delle truppe di occupazione non significa che i raid siano terminati. Al contrario, le forze israeliane ora posizionate sulle linee di demarcazione, ad eccezione di un battaglione dentro Gaza, restano pronte a lanciare nuovi attacchi. Come è avvenuto a nord della Striscia. Anche lì c’era stato il «ritiro», circa tre mesi fa. Poi a metà marzo, all’improvviso, è scattato un attacco devastante nell’area dell’ospedale Shifa di Gaza city contro, ha detto un portavoce militare, combattenti e comandanti di Hamas. Il complesso medico è uscito in gran parte distrutto dall’assalto in cui sono stati uccisi centinaia di civili e uomini del movimento islamico. Ieri le squadre di soccorso continuavano a recuperare cadaveri intorno allo Shifa. E corpi senza vita sono stati estratti anche dalle macerie di Khan Yunis. Almeno 62 secondo il reporter e blogger Younis Tirawi. Diversi altri sono stati ritrovati nel sobborgo di Hamad city. La Striscia di sangue in ogni caso continua ad allungarsi. Testimoni riferivano ieri che nell’area di Mawasi (Khan Yunis) un tank ha aperto il fuoco uccidendo una intera famiglia, la Ammar: padre, madre e sette figli. Altri civili, secondo fonti locali, sono stati uccisi nel distretto di Deir al Balah. Trentadue palestinesi sono stati uccisi in tutta Gaza tra domenica e lunedì, portando il bilancio totale delle vittime a 33.207.

Gli analisti non credono ai «grandi risultati» ottenuti dalle forze armate israeliane in sei mesi di offensiva a Gaza. Amos Harel ha scritto su Haaretz che i comandi militari, si vantano esageratamente dei risultati ottenuti nella loro campagna a Khan Yunis. A ben vedere, aggiunge Harel, gli obiettivi veri dell’operazione non sono stati raggiunti: i capi Hamas, come Yahya Sinwar e Muhammad Al-Deif, sono vivi e liberi e non ci sono stati progressi significativi nella ricerca degli ostaggi israeliani. L’analista prevede tre scenari possibili per il futuro: una escalation verso la guerra con Hezbollah in Libano e con l’Iran, progressi nei negoziati con Hamas e l’invasione di Rafah.

Il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majed Al Ansari, ieri si è detto «incoraggiato» dai colloqui al Cairo su tregua e scambio di prigionieri. Israele e Hamas invece smentiscono i «grandi progressi» di cui ha parlato in particolare la rete egiziana Qahera Tv. Le due parti restano profondamente divise sul ritorno degli sfollati alle loro case. Israele, secondo alcune fonti, autorizzerà il rientro nel nord solo a 60.000 palestinesi – e non ai maschi in «età da combattenti» – dopo controlli accurati ai posti di blocco. Su Netanyahu però crescono le pressioni interne favorevoli a uno scambio tra ostaggi a Gaza e prigionieri palestinesi in carcere in Israele. Il capo dell’opposizione, Yair Lapid, si è detto pronto a garantire i voti del suo partito alla Knesset pur di favorire un compromesso con Hamas che riporti a casa gli ostaggi. Da tempo si discute di sei settimane di tregua – temporanea – in cambio del rilascio di 40 ostaggi. Da qualche giorno anche di un breve cessate il fuoco «umanitario» per l’Eid el-Fitr, la festa islamica al termine del Ramadan previsto questa sera. Ieri fonti di Hamas hanno detto ad Al Jazeera che Usa ed Egitto propongono in una prima fase il rilascio di 900 prigionieri palestinesi – tra cui 100 che stanno scontando l’ergastolo – e un accordo per i civili sfollati senza limiti.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto