E adesso i ribelli si sentono traditi
Non dobbiamo aver paura di agire ma il peso dell’azione non deve ricadere solo sull’America. Come accade in Libia, il nostro compito è invece quello di mobilitare la comunità internazionale a favore di un’azione collettiva». Il pensiero è semplice e nobile, etico e pragmatico, ma al libico di Bengasi non convince. Il ribelle avrebbe voluto essere aiutato a cacciare un dittatore e non a conquistare palmo a palmo la sua stessa terra, ma ora vede strani negoziati. Aveva letto la risoluzione dell’Onu come una protezione per la sua causa: lui si sentiva il popolo libico, il civile da proteggere. Ora sente dire che il popolo libico è anche quello di Gheddafi e che i civili da proteggere sono anche i cecchini che gli sparano addosso. Sente che qualcuno lo vorrebbe “armare” forse per togliergli quel residuo di status “civile” che lo designa come vittima e per trascinarlo nella guerra civile. Vede l’intervento internazionale diventare iniquo proprio perché ora pretende di essere imparziale. Si rende conto che la “comune umanità ” gli chiede di fare la guerra: e non è attrezzato. Senza la testa orientata alla guerra non ci sono armi che tengano e senza aiuto internazionale la sua guerra è perduta prima ancora di cominciare. Si possono immaginare la delusione del ribelle, che potrebbe farlo cadere in mani ignobili, e la frustrazione di quei “consiglieri” inglesi e francesi mandati ad organizzare una rivolta e che si trovano a dover modificare la testa della gente: sanno già che prima o poi dovranno combattere loro in prima linea.
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