Vito Laterza, L’editore prodigio

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Mi si chiede di ricordare Vito Laterza nel decennale della morte, attenendomi a un episodio – uno soltanto – che mi appaia centrale della sua esperienza di editore di cultura. Così, la scena che mi si presenta alla memoria è un racconto dal vero. Vito ha venticinque anni quando, nel 1951, arriva al vertice della casa editrice che ha il suo cognome. Benedetto Croce, che di quell’azienda è stato per mezzo secolo il suggeritore e l’arbitro, di anni ne ha ottantacinque (scomparirà  l’anno successivo). La Laterza senza Croce: ecco la congiuntura che il giovane Vito si accinge a gestire. L’ipotesi sembra, sulle prime, un autentico paradosso. Ma alternative non se ne vedono, al di là  di una scommessa che più tardi Vito riassumerà  così: «Tentai di far sopravvivere sia il crocianesimo che la casa editrice». Esserci riuscito rimane un merito prezioso di quel ragazzo che 60 anni fa venne promosso editore. C’erano alcune cose da capire e da fare. Una soprattutto. L’azienda doveva registrare ciò che di nuovo la cultura italiana andava producendo proprio – in certi casi – per sgranchirsi dall’egemonia crociana. Ottenere che l’ombra del Grande Protettore, senza dileguarsi, diventasse meno incombente. Ma a che prezzo?

Specie a Napoli, capitale del crocianesimo, quel prezzo venne pronosticato come esorbitante. Si temé l’arrivo nella tipografia barese di scritti ispirati alle “pseudo-scienze” contro le quali il sublime pensatore aveva indirizzato le sue rampogne. Gli eredi del venerando “Gius. Laterza” si sarebbero vestiti con i panni della sociologia, magari di marca americana? Sarebbero sbarcati a Bari plotoni di antropologi? E i discepoli di Benedetto Croce più discoli e riottosi, a cominciare dagli azionisti, avrebbero fatto breccia nella cultura nazionale anche per il tramite dell’editore di Croce? Gli intellettuali della mia generazione, studenti di lettere nei primi anni Cinquanta, fecero in tempo a cogliere il momento del trapasso. Ma vedemmo, alla fine, la Laterza (dinastia e impresa) diventare sinonimo di una catastrofe scongiurata. Semplificando, assumerei tra i simboli principali di quella difficile salvezza una collana, “I libri del Tempo”, che accompagnò l’affacciarsi della sinistra democratica, al di là  dei partiti e degli atenei, verso il pubblico dei «lettori qualificati». Iniziava in tal modo, per la Laterza, un nuovo corso denso di personaggi simbolici, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini, da Arturo Carlo Jemolo ad Achille Battaglia, e poi Rossi Doria o Compagna, Scalfari o Cederna, Sciascia o Brancati, Romeo o Sylos Labini, Tullio De Mauro o Peppino Fiori: saranno decine. Il Mondo e i suoi convegni, rappresenteranno inoltre, per la casa barese, una riserva di spunti e di titoli. Il resto lo farà  l’aspetto fisico di Vito, la sua figura che io ho sempre trovato accattivante. Snello, occhialuto, l’aria assorta. Un timido che sa fare di conto. Un ragazzo meridionale – conserverà  a lungo quell’apparenza – che riscuote fiducia. Un intellettuale chiamato a superare tanti ostacoli. E però ci sono riusciti, lui e la sua azienda, a meritarsi il cognome Laterza.

 


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