Finte partite Iva, soci e falsi progetti i sette contratti che sfruttano i giovani

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Lavorano come possono, o piuttosto si arrangiano. Sono finti soci di negozi, falsi detentori di partite Iva, lavoratori a progetto per un progetto che non c’è. In realtà  sono tutti lavoratori subordinati, fanno parte di una struttura organizzata e producono come gli altri. A queste categorie di giovani, che cercano di sbarcare il lunario e di portare a casa un compenso a fine mese, mancano invece le garanzie degli altri, i contributi e le assicurazioni per incidenti e malattie. E’ il mondo del nuovo precariato che è nato sotto i nostri occhi e che spesso è difficile scorgere e catalogare. Ci sono professioni intellettuali, come gli assegnisti di ricerca; attività  di formazione come gli stage (si fanno anche nei negozi di abbigliamento) che nascondono spesso mero sfruttamento. Si affacciano alla porta del precariato anche i praticanti professionisti che lavorano gratis con l’obiettivo di entrare in un ordine professionale, ma non scorgono il futuro. Oppure quelli del voucher, un sistema nato per favorire i lavoretti degli studenti, e che rischia di essere l’ultimo gradino del precariato: il datore di lavoro compra i buoni dal tabaccaio e poi ci paga ragazzi sotto i 25 anni che possono lavorare anche il sabato e la domenica. Una radiografia dell’Italia, composta grazie ai dati della Cgil politiche giovanili e della Uil politiche territoriali, che mette i giovani italiani sotto una luce diversa rispetto a quella che si è accesa negli ultimi giorni. Molto meno «mammoni» di quanto si creda, meno «sfigati» di quanto si pensi: per loro la monotonia di un posto stabile è una chimera che agguanterebbero volentieri. Senza sensi di colpa. Anche per non cambiare lavoro ogni tre mesi. Per costruire una storia previdenziale adeguata e per poter stipulare un mutuo. Ecco i sette casi-tipo del precariato giovanile degli Anni Duemila.


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Altro che fiscal compact e tagli al debito pubblico a colpi da 40 miliardi all’anno (se non ci fossero quei provvidenziali ammortizzatori dei cosiddetti «altri fattori rilevanti») e non certo per azzerarlo ma semplicemente per ridurlo in 20 anni a livelli più sostenibili e in linea con i parametri di Maastricht (60% del Pil contro doppio attuale). Quel fardello da ben oltre 1.800 miliardi, che tramortisce l’economia italiana dissanguando il futuro del paese e che erode come tutti gli altri debiti dell’area la stabilità  dell’euro, si potrebbe far sparire in poco più di 10 anni. Fanta-finanza? No.

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