L’esistenza mobile nei versi di Camillo Pennati

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Da poco è stato pubblicato il suo Paesaggi del silenzio con figura (Interlinea Edizioni, pp.186, euro 12). «La mia – scrive in prefazione – è poesia (…) di luce e aria e vento e piante e fioriture e uccelli, nel tempo vero e non immaginario». Eppure nessuna poesia è più della sua lontana da qualsiasi tentazione simbolista. Nei paraggi non si scorge alcuna Myricae . La sua faglia nutritiva sembra piuttosto la medesima da cui ha attinto la poesia cosmica della Ginestra leopardiana, con cui condivide la convinzione intimamente antiantropocentrica. Comune è il sentire materialistico e sensista. A indicarlo non è solo la vasta casistica di termini fisico-biologici come atomi, molecole, biosfera, cellule, fotosintesi, ma soprattutto la saldezza sensoriale delle descrizioni, al punto che il «combaciamento» finisce per essere emblema della conoscenza, come esemplifica l’intensa Nel sentirs i del corpo . Il fatto è che la poesia pennatiana è accesa da un’intensa passione conoscitiva. La descrizione dell’attimo, del minimo – il cadere di una foglia, il passo di un porcospino, l’aprirsi di una rosa, il mutevole passaggio di una nube, l’oscillare di un ramo – l’ hic et nunc accolti nella loro irrimediabile unicità  sono altrettante porte d’accesso all’intero esistere dell’universo. C’è in Pennati una disponibilità  interminata agli accadimenti della natura, perché animato da una passione paragonabile a quella con cui, alle origini del pensiero occidentale, i sapienti ellenici inseguivano il «logos» nella «fysis». Ritrovi la stessa energia argomentativa, il medesimo rispetto e una lietezza, che a ogni evento rampolla incorrotta. È infine una poesia potente e rapinosa, quella di Pennati, dal verso ampio, capace di strutturazioni sintattiche vertiginose ora solidamente concatenate, ora sforzate dalle slogature, più raramente scheggiate da fratture incomposte. La posta della ricerca linguistica non è la coloritura allusiva o la clausola classificatoria, ma la mobilità  serpentina e infinitamente cangiante dell’esistenza, che trascina con sé, quale intimo logos, il moto sintattico. La poesia di Pennati dunque prende slancio da una soglia di essenzialità  d’esistenza dell’uomo e del vivente, dove l’atomo e l’universo mostrano la reciproca ragion d’essere, in cui lo sguardo scopre e vive la gioia intima di sé e del mondo; ma il viaggio morale e intellettuale che a quella soglia ha condotti non dimentica, per usare ancora le parole dell’introduzione, «oppressioni torture ingiustizie distruzioni stragi affamamenti da indotte carestie e ingordi sfaceli di acque e terre nei veleni dell’aria sconvolta da antropici dissesti», per questo fa propria la parola forte e nobile: ci mostra la faccia nascosta, ciò che la follia quotidiana delle nostre società  tardo capitalistiche distrugge, sfregia, occulta. Così il lieto furore della poesia pennatiana ripete a chi legge l’invito di ogni opera d’arte autentica: diventa, nella tua realtà  storica sociale, ciò che io sono.


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