Il Colle, la Procura e il Duello sui Nastri

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ROMA — Volevano scoprire se l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, in quel periodo ancora testimone dell’inchiesta sulla presunta trattativa fra Stato e mafia al tempo delle stragi del ’92 e del ’93, nascondesse loro qualcosa; o addirittura concordasse «versioni di comodo» con altri protagonisti dell’indagine. Per questo i magistrati di Palermo — pubblici ministeri e giudice dell’indagine preliminare — misero sotto controllo il telefono dell’ex ministro. Ed è per questo che anche la voce del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è finita tra le tante intercettazioni accumulate nel procedimento. Almeno in un paio di occasioni, una in coincidenza con le festività  di fine 2011. Colloqui che, precisò il pubblico ministero Nino Di Matteo in un’intervista all’indomani del deposito degli atti d’indagine, «non sono minimamente rilevanti». Per questo non erano tra le carte messe a disposizione degli indagati. Quanto al loro destino, il pm spiegò: «Applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti».
Con quelle dichiarazioni — che peraltro costituivano la conferma di ciò che fino a quel momento era solo un’indiscrezione: l’esistenza di intercettazioni di colloqui del capo dello Stato — al Quirinale è suonato il primo campanello d’allarme. Perché si poteva dedurre che i colloqui «irrilevanti» per la parte d’indagine già  chiusa, potevano diventare rilevanti in altri spezzoni del procedimenti; e perché la procedura per la distruzione davanti al gip avrebbe comportato il rischio di una loro diffusione.
Da Palermo, sollecitati da una richiesta dell’Avvocato dello Stato, i pm provarono a tranquillizzare il presidente della Repubblica: la sintesi dell’intervista poteva dar luogo a fraintendimenti, non c’era alcuna intenzione di approfondire alcunché che riguardasse i colloqui del capo dello Stato. «Questa Procura — scrisse il capo dell’ufficio Francesco Messineo — avendo già  valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità  di legge».
Ma poteva la Procura «valutare» le conversazioni del presidente della Repubblica, che gode di una immunità  assoluta sancita dall’articolo 90 della Costituzione e che persino qualora fosse accusato dell’unico reato a lui imputabile, «alto tradimento», potrebbe essere intercettato solo dopo che la Corte costituzionale l’avesse sospeso dalla carica? No, secondo il Quirinale; in nessun modo e per nessun motivo.
Sì invece, secondo la Procura di Palermo. Perché le valutazioni non avevano riguardato le parole del presidente né tanto meno la sua posizione, bensì esclusivamente il suo interlocutore: Nicola Mancino, che è stato anche presidente del Senato e vicepresidente del Csm, ma ora non gode di alcuna protezione. Lui è stato legittimante intercettato, e legittimamente è stata captata — «occasionalmente, in maniera imprevedibile e inaspettata» — anche la voce del suo interlocutore Napolitano. I pm, procuratore Messineo in testa, erano e continuano a mostrarsi convinti che l’analisi della rilevanza di quei colloqui per la posizione di Mancino fosse consentita e perfino doverosa. Esaurita quella fase, per loro la questione era chiusa. Non per il Quirinale, però, dove la pensano all’opposto. Perché ritengono che se pure in quelle intercettazioni ci fossero indizi a carico o discarico di Mancino, non si potrebbero utilizzare. Per via della totale protezione da ogni indagine assicurata al capo dello Stato, che si ripercuote sui suoi atti pubblici e privati. La valutazione dell’autorità  giudiziaria, sebbene nei confronti di altre persone, sfuggirebbe a questa protezione, così come la procedura ipotizzata dai pm per la distruzione di quei colloqui registrati. Per andare davanti a un giudice bisognerebbe avvisare le parti interessate (in questo caso almeno Mancino, ma forse anche gli altri indagati per la cosiddetta trattativa) e discutere con lui e con gli avvocati della loro rilevanza. Il che significherebbe far cadere la segretezza che finora è stata garantita.
Secondo i magistrati di Palermo, per legge non si può fare altrimenti; secondo la presidenza della Repubblica tutto questo è contro la legge. E dopo essersi confrontati a distanza attraverso lettere e comunicati, Napolitano ha fatto esplodere il conflitto istituzionale.


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