Henri Matisse, disegni improvvisati come note di sax

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Un vecchio nonno un po’ sornione che ritaglia giocattoli per i nipotini: è così che si presenta Henri Matisse in una foto che lo ritrae a Vence, a quasi ottant’anni, mentre sforbicia uno dei cartoncini colorati con cui avrebbe costruito Jazz, uno dei libri d’arte più originali del Novecento. E oggi Jazz viene riproposto in edizione fac-simile dall’Electa, con due scritti di Francesco Poli e di Corrado Mingardi, in un libro-oggetto fatto di quartini sciolti che alternano pagine scritte a mano da Matisse e colorate immagini ritagliate da un enfant di ottant’anni, un bambino sapiente e scapestrato che si mise a dipingere cartoncini e a costruire disegni che sono quasi sculture, tagliando le carte con le forbici e montando i pezzi come in un cinema delle origini: sono i papiers gouachés et decoupés che un editore geniale, Tériade, vide nello studio di Matisse e gli chiese di mettere insieme per comporre un libro.
I giochi a colori di Matisse riguardavano soprattutto il circo, tra clown e mangiatori di spade e Pierrot, ma Tériade ebbe un’idea brillante, e dette al libro un nome che in quegli anni evocava il nuovo, l’istinto, l’improvvisazione, il ritmo e la giovinezza: e lo chiamò Jazz.
In quel 1947 le caves a Saint-Germain-de-prés cominciavano a essere invase dai jazzisti americani, i francesi un po’ fuori moda impazzivano per la faccia da Satiro ubriaco di Sidney Bechet e per lo stile New Orleans del suo sax soprano, i giovani si buttavano sui primi dischi del bop trovando nei solchi i guizzi nevrotici e tagliati di Charlie Parker, l’anno dopo si sarebbe aperto il festival internazionale del jazz di Parigi, e lo scrittore Boris Vian scriveva libri surreali e suonava la tromba in un gruppo jazz riuscendo forse a pagarsi le cene ma non certo il troppo whisky americano che beveva.
Ma cosa ne sapeva l’ottantenne Matisse della nuova musica che contagiava gli zazous, i ragazzini ribelli delle caves e che si sarebbe sposata a perfezione con le nevrosi dell’Essere e del Niente di Sartre? Non ne sapeva niente o quasi, ma afferrò al volo il suggerimento di Tériade, scrisse nel libro che il gesto dell’artista sapiente deve saper dimenticare la tecnica e conservare «la freschezza dell’istinto», disse che le sue carte ritagliate erano «improvvisazioni cromatiche e ritmate», aggiunse che avrebbe usato la propria grafia «come sfondo sonoro», e creò il suo circo di colori al ritmo di un jazz immaginario. Ma quel ritmo era nelle vene dell’epoca, e basta aprire Jazz per capirlo a ogni foglio e persino negli sbalzi della scrittura. In mezzo alla grafia di curve e sgraffi e onde di Matisse, una grafia che si trasforma in calligrafia come nei rotoli di seta giapponesi o nelle volute liberty, ecco che appaiono immagini famose come Il clown, che si muove accompagnato dalla musica finto jazz della sonata per violino e pianoforte di Ravel; ed ecco i puri segni colorati che Matisse chiamava Lagune, ma che sono arabeschi, frange, virgole, trine, colori trasformati in ritmi da un colpo di forbici che somiglia a un colpo d’ancia del sax di Bechet; ed ecco un capolavoro come Cow-boy, due ombre in forma di macchie che si incrociano avvinghiate da un lazo sghembo e sincopato come il Rag-time di Stravinskij.
E in questo tardo Matisse gli intrecci ritmici e cromatici andavano tutti nella direzione del tempo sincopato e blues del jazz, la musica dell’improvvisazione emotiva in cui il nuovo è raggiunto nel momento in cui ci si lancia a proprio rischio e pericolo nel vuoto, e si dà  inizio alle sorprese del Caso. Così, a un certo punto di Jazz, Matisse scriveva: «Un musicista ha detto che in arte la verità , o il reale, comincia quando non si capisce più nulla di quello che si fa…». Il vecchio artista, che non sapeva niente di Parker e Gillespie, aveva però afferrato l’idea di improvvisazione a partire dalla scomposizione di un tema, che in lui si legava a una pratica esecutiva in cui gli strumenti erano le mani e la musica i colori: con l’aiuto del momento giusto, Matisse sapeva che le combinazioni di timbri e segni diventavano giuste, e la musica delle immagini si levava dalle sue carte colorate e ritagliate come qualcosa di mai visto prima.
E non è strano che dal miscuglio tra improvvisazione ritmica e infanzia ritrovata le carte colorate di Matisse anticipino anche il pop: quasi esaurendolo prima che sia inventato. In Matisse è pop l’edonismo visivo, la decoratività  che penetra nelle figure, la semplificazione delle forme, qualcosa che è raffinato e bambinesco allo stesso tempo, qualcosa che risuona allegro e dolce anche quando, come in Jazz, rappresenta il funerale di Pierrot. Il vecchio Matisse sapeva giocare, e sapeva che i bambini perenni che siamo vanno divertiti e divagati: e a quei bambini perenni, strizzando l’occhio da clown, regalò il suo jazz.


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