Quei rapporti ambigui tra politica e mafia

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«Fino a ora avevo sempre confidato nel tempo galantuomo e nella forza invincibile della ragione. Ma spero che vi siano pure leggi, in Italia, che tutelino l’onore delle persone e smascherino lo scempio della verità ; a esse io inesorabilmente mi appello», scriveva nel 1995 Giulio Andreotti in «Cosa loro – Mai visti da vicino».
Era il primo libro dedicato all’indagine che lo trasformò in un imputato di associazione mafiosa, nel quale contrapponeva i suoi argomenti a «un impianto accusatorio che io ritengo infondato e perverso». Lo diede alle stampe alla vigilia del dibattimento. Quattro anni dopo, in vista della prima sentenza, ne pubblicò un altro, A non domanda rispondo – Le mie deposizione davanti al tribunale di Palermo. Con la tradizionale ironia spiegò che s’era sottoposto a quelle fatiche per fare un po’ di soldi necessari a pagare gli avvocati. Più probabilmente lo fece per appellarsi al popolo dei suoi lettori, prima ancora che si pronunciassero i giudici. I quali sono giunti — almeno alcuni, e almeno in parte — a conclusioni un po’ diverse da quelle auspicate da Andreotti.
L’esito dei processi in cui il senatore a vita fu accusato di collusione con la mafia e di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli (il primo celebrato a Palermo e il secondo a Perugia, strettamente connessi al punto da essere la quasi-fotocopia uno dell’altro) è noto nello svolgimento fino alle alterne conclusioni: assoluzione in primo grado e prescrizione in appello per alcuni fatti, a Palermo, confermata dalla Cassazione; assoluzione, condanna e di nuovo assoluzione a Perugia. Dibattimenti che sono durati anni, racconti infiniti di pentiti (dai più famosi e affidabili come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, ai più discussi o screditati, come Balduccio Di Maggio) e testimoni illustrissimi o sconosciuti, attraverso i quali è stata ripercorsa una parte importante della storia d’Italia per giudicare un uomo di governo e di potere che della storia d’Italia è stato indubbio protagonista. E lui sempre seduto sul banco degli imputati, a prendere appunti come fosse a un congresso della Democrazia cristiana, senza mai cedere a invettive o ricusazioni, al massimo qualche battuta salace.
Si ripete spesso, giustamente, che la storia non si fa nei tribunali. Ma i processi Andreotti sono entrati nella storia; basti pensare che, a parte quelli dell’imputato e uno del suo avvocato Giulia Bongiorno, molti volumi sono stati pubblicati in proposito, tra i quali spiccano gli scritti di Emanuele Macaluso e del professor Salvatore Lupo. Così come la storia è entrata nei processi Andreotti, dallo sbarco degli americani in Sicilia al caso Moro, passando per le candidature elettorali o la formazione dei governi in alcune fasi cruciali della vita politica del Paese.
Le sentenze, alla fine, hanno stabilito che con l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, assassinato a Roma nel marzo 1979, il senatore non c’entrava, nonostante le richieste di ergastolo e la condanna d’appello a 24 anni di carcere poi annullata dalla Cassazione senza rinvio ad altri giudici. Quanto all’accusa di mafia, nell’ultimo verdetto è scritto che «il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss (Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, ndr); ha palesato agli stessi una disponibilità  non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi».
Per la Corte d’appello tutto ciò costituisce un reato provato fino al 1980, che però nel 2003 era ormai prescritto. In ogni caso, sentenziarono i giudici, «di questi fatti il senatore Andreotti risponde di fronte alla Storia», con la maiuscola, tanto per ribadire il nesso inscindibile tra le vicende dell’imputato e quelle del Paese. Su altri fatti successivi al 1980, a cominciare dal presunto «bacio» con Totò Riina, restò l’assoluzione piena. E gli stessi giudici aggiunsero: «La Storia gli dovrà  anche riconoscere il successivo, progressivo e autentico impegno nella lotta contro la mafia, impegno che ha, in definitiva, compromesso, come poteva essere prevedibile, la incolumità  di suoi amici e perfino messo a repentaglio quella sua e dei suoi familiari».
L’omicidio del «proconsole» di Andreotti in Sicilia, il molto chiacchierato Salvo Lima, e poi la strage di Capaci, nel 1992 sbarrarono la strada di Andreotti verso il Quirinale, e di questo si dibatterà  in un nuovo processo che comincerà  a fine mese, quello sulla presunta trattativa fra Stato e mafia. A dimostrazione che delle relazioni fra l’uomo simbolo del potere democristiano e Cosa nostra probabilmente non si finirà  mai di discutere, nonostante l’ostinazione dell’ex imputato a negare perfino i rapporti con i cugini mafiosi Nino e Ignazio Salvo (ritenuti provati anche dai giudici che l’assolsero in primo grado), o la certezza con la quale difendeva l’integrità  di Lima, a dispetto di pronunciamenti ormai definitivi che vanno in tutt’altra direzione. Colpevolisti e innocentisti continueranno a dividersi. Ma al di là  delle opinioni sui processi, il caso giudiziario di Giulio Andreotti resta una sorta di compendio delle ambiguità  che hanno caratterizzato i rapporti tra la politica e la mafia, e delle tante zone d’ombra in cui il potere ha finito per intrecciarsi col crimine.
Giovanni Bianconi


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