Nucleare e velo, le nuove aperture di Teheran

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ORMAI non si possono avere dubbi che il governo iraniano sia pronto a fare i compromessi necessari per chiudere il dossier nucleare e che voglia arrivarci in tempi rapidissimi. Dopo le aperture del presidente Hassan Rouhani a New York, dopo l’appoggio dato dal “leader supremo” Khamenei all’«eroica flessibilità » della diplomazia, e dopo la dichiarazione di sostegno del parlamento, è stato il presidente stesso del majlis
(l’Assemblea consultiva islamica), il conservatore Ali Larijani, a indicare la strada che il regime è pronto a percorrere per «venire incontro ai timori dell’Occidente».
L’Iran possiede più uranio arricchito al 20 per cento di quanto gli serva e se l’Occidente ha dei timori non sarà difficile placarli, ha detto Larijani: «Devono poter assicurarsi che non siamo in grado di costruire un’arma nucleare ». Il Wall Street Journalha anticipato che il ministro degli esteri Zarif dirà a Ginevra la settimana prossima che l’Iran è pronto a ridurre l’arricchimento a soglie molto inferiori al 20 per cento e ad accettare la sorveglianza degli ispettori dell’Onu, in cambio di vedersi riconosciuti i propri diritti e alleggerite le sanzioni economiche.
La rapidità con cui si susseguono le aperture del governo Rouhani («sono passati cinquanta giorni, ma è come se fossero cinquecento», ha detto il presidente) è necessaria per battere sul tempo gli ultraconservatori, che dietro le quinte cercano in ogni modo di sabotare il suo governo, come sabotarono con successo quindici anni fa quello di Khatami. Il ministro Zarif ha scritto su Twitter che ha dovuto andare in ospedale per un attacco di bile dopo aver letto delle falsità inaudite sul giornale Keyhan, capofila degli ultrà, che gli aveva attribuito una critica alla telefonata di Rouhani con
Obama.
Il presidente chiederà al popolo iraniano di esprimersi in un sondaggio sul suo operato. Ha detto che il mondo va affrontato «con la prudenza invece che con gli slogan» a proposito della proposta lanciata dall’ex presidente Rafsanjani di rinunciare al mantra “morte all’America”. Ma l’ostilità verso gli Stati Uniti è stata fin dagli inizi un pilastro della rivoluzione khomeinista, insieme al velayat e faqih (la supremazia del leader), e il clero più fondamentalista — e una parte delle Guardie della Rivoluzione — vedono la mano tesa all’America come un’eresia. Tra poco ci sarà il 34esimo anniversario della presa degli ostaggi nell’ambasciata americana: e «morte all’America e al sionismo risuonerà in tutte le città e i villaggi dell’Iran»,
ha detto un generale.
Alle novità in campo politico si accompagnano aperture nel campo culturale e perfino sul tema tabù dei codici di vestiario, ossia. Il presidente Rouhani ha invitato la polizia ad una maggiore flsssibilità nell’applicare la legge che obbliga le donne ad indossare il velo: «Le nostre donne devono sentirsi sicure in presenza della polizia», il rispetto delle regole «va insegnato nelle scuole e non ai commissariati», la virtù si promuove «con la lotta alla povertà e alla disoccupazione, non con misure di polizia». E il ministro della cultura Ali Jannati (figlio moderato di un famoso ayatollah fondamentalista) afferma di «vedere con tristezza» quanti libri siano stati vietati negli anni passati dall’organo di censura del proprio ministero: «Se il Corano, invece che rivelato fosse stato scritto adesso, avrebbero vietato anche quello».


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Un’occasione forse irripetibile

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OSLO. Un’occasione (forse) irripetibile, quella che, salvo imprevisti, si aprirà  oggi a Oslo. Per il governo (di destra) colombiano ma (forse) anche per le Farc, la guerriglia più antica dell’America latina, da quasi mezzo secolo sulla breccia e, nonostante tutto – fine del tempo per la lotta armata, colpi subiti sul piano militare, accuse di narco-traffico – ancora abbastanza forte da non poter essere battuta sul terreno bellico (segno che qualche ragione di forza ancora ce l’ha).

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