Pensioni, non passa il super prelievo dagli assegni più alti

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ROMA – In Consiglio dei ministri la discussione era andata avanti fino a mezzanotte. E un ultimo tentativo è stato fatto anche dopo, in sede di limatura del testo. Ma alla fine è passata la linea del Pdl, che con Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello aveva detto no fin dall’inizio. Nella legge di Stabilità non c’è il contributo di solidarietà a carico delle pensioni più alte. Un prelievo aggiuntivo resiste, quel 3% al di sopra dei 300 mila euro lordi l’anno, prorogato fino al 2016. Ma riguarda sia le pensioni che gli stipendi. E non è una differenza da poco. Anzi, è il segnale di come almeno per il momento il governo delle larghe intese abbia rinunciato a quel riequilibrio fra generazioni del quale lo stesso premier Enrico Letta aveva parlato più volte, a partire dal discorso programmatico in Parlamento.
All’inizio dell’estate si era discusso per settimane della «staffetta generazionale», con il passaggio delle consegne da un lavoratore anziano ad uno giovane, grazie al pensionamento flessibile e al part-time. Ma non se ne è fatto nulla. Poi si era tornati a discutere del contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. La Corte costituzionale aveva appena bocciato la vecchia sovrattassa, spiegando che non si possono prendere di mira solo i pensionati. Un’obiezione che il governo ha provato ad aggirare destinando il gettito del contributo non direttamente alle casse dello Stato ma all’ente di previdenza per garantirne l’equilibrio. Ma anche questa ipotesi, contenuta nella bozza entrata in consiglio dei ministri, è stata scartata. E niente da fare nemmeno per il piano B con l’idea di limare le pensioni alte calcolate con quel sistema retributivo ben più generoso rispetto al contributivo imposto ai giovani. Una revisione che avrebbe avuto effetti importanti, come dimostrano alcune elaborazioni fatte dai tecnici e arrivate sul tavolo di più di un ministro. Un assegno lordo mensile di 7 mila euro, ricalcolato col contributivo, vale 6.100, uno da 51.200 (esiste ed è nella top ten) precipita a 27.700, quasi la metà. Una differenza che avrebbe giustificato, secondo i sostenitori dell’intervento, la richiesta di un contributo sugli assegni più alti. In realtà un intervento mirato sulle pensioni c’è, ed è lo stop all’adeguamento automatico all’inflazione per gli importi sopra i 3 mila euro lordi al mese. Ma di fatto la gelata riguarda anche gli stipendi, con i dipendenti pubblici che hanno i contratti bloccati, e i dipendenti privati che tra crisi aziendali e tagli al costo del lavoro difficilmente vedono salire le loro buste paga.
Il risultato è che, dopo i primi sei mesi di governo, il riequilibrio fra le generazioni non c’è. E torna così nel cassetto l’idea che il confine tra chi ha di più e chi ha di meno non sia solo una linea orizzontale che separa i ricchi dai poveri ma anche una linea verticale che divide i padri dai figli, la generazione che ha avuto un lavoro e una pensione da quella successiva che rischia di non aver né l’uno né l’altra. Per sue responsabilità, certo, ma anche perché nel frattempo il centro del mondo si è spostato, perché l’Europa è in crisi e l’Italia ancora di più. Sono passati più di quindici anni da quando Nicola Rossi scrisse «Meno ai padri, più ai figli», una ricetta per il welfare del futuro. Forse non è un caso se l’economista ha appena lasciato il suo ultimo incarico politico, la presidenza di Italia Futura, per tornare ad insegnare all’università.
Enrico Marro
Lorenzo Salvia


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