L’armata nostalgica della Serenissima che non ha imparato a guardare al futuro

L’armata nostalgica della Serenissima che non ha imparato a guardare al futuro

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La prima sensazione di fronte alle notizie sul clamoroso blitz della magistratura contro gli indipendentisti veneti è quella di assistere a un remake dei film di Monicelli e Tognazzi. Si parla di fatti avvenuti nel 1997, il protagonista principale è il mitico tanko che avrebbe dovuto servire alla conquista di piazza San Marco a Venezia, i congiurati sono tutta una serie di improvvisati capipopolo anti-Stato e anti-tasse.
L’accusa poi è nientemeno che «insurrezione», la riunione-chiave si sarebbe tenuta un anno fa e avrebbe dato vita a una fantomatica Alleanza. L’episodio «eversivo» più recente risale al dicembre scorso e ai blocchi organizzati dai Forconi in Veneto, ai cui presìdi — non fa male ricordarlo — arrivarono attestati di solidarietà persino dal vescovo di Padova. Insomma la sceneggiatura monicelliana c’è tutta, con il passare degli anni appare inevitabilmente ingiallita e i dubbi quindi aumentano. Qual è il reale livello di pericolosità della combriccola venetista? In tutta onestà riesce difficile, in base alle cose che pure abbiamo appreso, considerarla un focolaio di partito armato e terrorista. Forse ci sono in questo momento in Italia serbatoi di eversione decisamente più collaudati, meno folcloristici e che hanno però il pregio di piacere tanto agli intellettuali engagé . E se proprio vogliamo riandare alle confuse giornate di fine 2013 gli episodi più crudi si erano verificati a Torino — e non in Veneto — dove un inedito mix di ultras del calcio, ambulanti del commercio e improvvisati forconisti aveva tenuto in scacco la città per tre giorni.
Dopo il referendum online organizzato da Plebiscito.eu — il cui reale impatto in termini di votanti è ancora avvolto nel mistero — il tema dell’indipendentismo veneto è tornato sotto i riflettori e si è cominciato a discutere su cosa legasse l’inatteso revival al drammatico contesto politico ed economico che viviamo. La cosa più sensata forse però è quella di scindere il rispetto per i sentimenti di appartenenza dalla riflessione sulle vie da percorrere per uscire dalla crisi, l’identità dall’economia (e dalla politica). C’è un’anima dei veneti che li porta a sognare l’autonomia, a rivendicare di voler essere padroni in casa propria, a puntare sulla responsabilizzazione dei territori per tornare ai fasti della Serenissima. È un sentimento che — capisco — possa non essere condiviso ma non dovrebbe essere così difficile rispettarlo. In misura diversa e con un background storico differente la passione autonomista è presente anche in altre regioni e zone d’Italia.
Se invece discutiamo del futuro del nostro Paese e di come risorgere dopo la Grande Crisi non si possono far sconti a nessuno. Nel riordino istituzionale che ci accingiamo a implementare, pur tra contrasti, stiamo rivisitando l’idea di toccare di nuovo il Titolo V della Costituzione e più di qualcuno sostiene che hanno sempre meno senso le Regioni a statuto speciale, che una volta dovevano servire a tutelare le minoranze linguistiche. In più siamo completamente immersi nell’economia globale e non ci sono scorciatoie per uscirne, non ci possiamo dimettere da Paese industriale avanzato. I nostri figli, già penalizzati da un’ingiusta divisione del lavoro, non capirebbero ulteriori nostre titubanze e un giorno potrebbero legittimamente accusarci di aver perso del buon tempo a guardare film in bianco e nero. La strada è quella che stanno percorrendo proprio alcune medie e grandi aziende del Nord Est che grazie all’export hanno evitato in questi anni il tracollo dell’industria e sanno perfettamente dove abita il futuro e qual è il suo indirizzo.


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