Lo Schindler yazida

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I PROGRAMMI video dello stato Islamico ci hanno dato ieri la ributtante recita degli yazidi convertiti all’islam.
PARLIAMO ancora degli yazidi, dunque. Li vedi dovunque, sui palazzi in costruzione, sotto i ponti delle strade, come depositati da una risacca. Nella provincia curda di Dohuk è riparata la maggior parte dei 600 mila nuovi sfollati, dopo giugno da Mosul, e dal Gebel Sinjar in agosto. UNHCR, Unicef, governo, si affannano a metter su tende, ma l’eccedenza è enorme. E’ un popolo che sfugge ai censimenti, perennemente in moto: sarebbe panico, se non fosse la più fondata delle paure. Il numero maggiore di yazidi (fra poco non li chiamerò più così) si va fermando nei campi di fortuna a Zakho, a Khanke, a Bajet Kandela: un’epopea estenuante, dopo che i peshmerga locali, del PKK di Turchia e curdi-siriani hanno aperto la discesa dal monte, l’entrata in territorio siriano e il rientro nel Kurdistan iracheno. Che una gente in fuga cerchi salvezza oltre la frontiera con la Siria martoriata, ecco un’altra ironia tragica. Tornavano in mente le pagine di Werfel sul Mussa Dagh, e in realtà fra quegli armeni e questi speciali curdi c’è stato molto da spartire.
Nei campi degli sfollati ogni volta si ripete la vicenda del visitatore venuto dalla vita normale, che era fino a poco fa la loro, e ora da loro si è già allontanata di mille anni. I primi fanno ressa, per gridare che l’acqua è scarsa e il pane è poco, e subito altri li spingono via per dire che non importa più il pane e l’acqua, importa solo la vita dei loro bambini, che si soccorrano le donne rapite, che si offra loro una terra — «a noi e ai cristiani», si premurano di aggiungere. Quando l’eccitazione si dirada c’è la terza fase, delle storie personali: questo è mio figlio, gli hanno amputato il braccio per un cancro, come posso curarlo qua? Questa è mia figlia, è disabile, come posso assisterla in una tenda di 25 persone? E’ così quando la gente è destituita, dopo il terremoto, o in galera. Mi accompagna Salman, giovane psicologo dell’Unicef. C’è un bambino di 10 anni, gli hanno ucciso tutta la famiglia davanti agli occhi, non riusciva più a muoversi e a parlare, devono aver pensato che era impazzito, è scappato, ora è qui, solo al mondo.
La folla si apre e spinge avanti un uomo alto e vigoroso, che fisionomia e abbigliamento dichiarano estraneo alla risacca. Lui ha fatto tanto per noi, dicono. «E’ molto ricco», sussurrano con rispetto. Si chiama Ali Ezzedin, di qualunque cosa abbia bisogno, mi dice, la mia casa è qui di fronte. La mattina dopo vado alla sua casa: sono più case a due piani, separate da piazzali e giardini. Ha 52 anni, è il primogenito di 12 maschi e innumerevoli sorelle, il loro padre aveva avuto tre mogli, aveva una fattoria in un villaggio a 30 km da qui. Nel 1988 la campagna “Anfal” di Saddam, “il genocidio dei curdi”, distrusse il suo con altri 4 mila villaggi, e vennero qui. Khanke è terra tradizionale degli yazidi, e ha due santuari, uno antico. Ali e suo fratello Saider, che è con noi, hanno una moglie, altri fratelli ne hanno due. «I fuggiaschi sono così poveri, solo gli stracci che hanno addosso. Io dico loro di fermarsi. Nei primi giorni avevano bisogno di tutto, non c’era l’elettricità, gli abbiamo dato 3 pasti, vestiti per le donne e i bambini, venivano in fila a fare la doccia. Non potevamo immaginare che venisse fatto questo al nostro popolo, ancora una volta. Erano senza armi e senza nemici. Ieri è venuta una famiglia di 23 persone. Se Sheikhan si vuota, non ci sarà più una religione yazidi ». Tu sei molto religioso? «No, normale. La nostra religione è il nostro modo di vita». Ali è venuto spesso in Europa, più volte in Germania e in Francia — «Parigi adesso è troppo affollata, e non è pulita» — in Russia, Armenia, a Roma… Imperscrutabili disegni della provvidenza: Ali, come sei diventato ricco? «A Bagdad, dal 2003, col commercio di bevande alcoliche. Ora è un momento difficile per il trasporto di birra e whisky: l’Is controlla le strade».
Dopo aver imparato all’improvviso che esistono perché sono il bersaglio di un genocidio, perché le loro donne e ragazze, selezionate fra mogli e vergini, vengono vendute e abusate, e i villaggi e santuari distrutti, bisognava tornare indietro e imparare qualcosa di più sugli yazidi. Ecco alcune cose che ho imparato. Non si chiamano Yazidi, e il nome fomenta i fraintendimenti, perché li associa al califfo Yazid, figlio di Mu’awiya, inviso agli sciiti come l’uccisore di Hussein a Kerbala. Si chiamano Ezidi, da ezid che è uno dei 1001 nomi di Dio: e così dovremmo cominciare a chiamarli anche noi. Un’altra cosa importante ho appreso. Dallo scorso 13 agosto ha fatto il giro del mondo la notizia che l’Is aveva fatto saltare con l’esplosivo il santuario di Lalish, centro della fede ezida e meta del pellegrinaggio. È a Lalish che fu creato il mondo. A Lalish c’è il sepolcro del grande rinnovatore della religione ezida nel XII secolo, Adi ibn Musafir, reincarnatore dell’arcangelo-pavone Melek Ta’us, fatto passare calunniosamente per Satana. Non era vero: Lalish è in piedi, con le tombe dei santi, le cupole coniche chiare come trulli goticizzati o gonne di dervisci rotanti, le sue candele perenni di olio d’oliva. Il cardinale Filoni ci è andato quattro giorni fa. Il capo spirituale ezida, Baba Sheikh, 81 anni, sta a Sheikhan: tre anni fa era all’incontro di Assisi. A Erbil suo fratello Ido, 59 anni, ci spiega che i media hanno confuso con la distruzione di luoghi sacri, mazar, vicini, Bashika, Babira. La caduta di Lalish sarebbe stata una tragedia irreparabile per gli ezidi, come la distruzione della Mecca per i musulmani. E con gli edifici, sono in salvo anche gli oggetti della devozione ezida, come le insegne d’ottone in forma di pavone. Libri sacri non ce ne sono, se non due dubbi: la memoria ezida è consegnata alla tradizione orale. Ma questo cambia, dice Ido, e se ora il mondo parla di noi per questa spaventosa persecuzione — «la 73esima… » — studiosi internazionali di vaglia si sono dedicati alla nostra cultura, i nostri giovani li stanno emulando. Comunque, dice Ido, le tombe, i templi, si ricostruiscono: sono pietre sacre, ma pietre. «E’ successo più volte anche a Lalish. Invece la vita, il destino delle donne rapite e violate, non ha riparo. Noi non possiamo ancora sapere quanti sono morti. Le donne rubate sono più di 700. Bambini sono morti di sete sulla montagna. Ma non siamo soli. Nel 1832, quando gli ottomani vennero a fare strage della nostra gente e a portar via le donne, nessuno se ne accorgeva. Oggi il mondo vede».
Nel 2007 una diciassettenne ezida fu lapidata dai suoi per aver voluto convertirsi all’islam, forse per amore; il corpo trascinato in giro, e alla fine offeso da un esame medico-legale (che la scoprì vergine). L’episodio orribile diede ai fanatici sunniti il pretesto per un massacro, e fece ragionare molti curdi sull’infamia del delitto d’onore. Chiedo a Ido quale sia, nel firmamento religioso e mitologico ezida la figura femminile più importante. Noi preghiamo il sole sopra tutto, dice: la luce. Ma il sole è maschile, o femminile come in tedesco? — chiedo. «Femminile».



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