Facebook-Google, la guerra sporca del web

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Il sapore è quello di una «spy story» trapiantata nel mondo «incantato» delle tecnologie digitali, fino a ieri considerato trasparente quasi per definizione dai teorici della nuova «economia della collaborazione» . La conseguenza immediata è quella di far apparire Mark Zuckerberg, il fondatore e capo di Facebook, come un padrone con uno stile manageriale da «ora del dilettante» . Ma l’ammissione della più grande rete sociale del mondo di essere stata lei a tentare di orchestrare una campagna «anonima» contro Google, accusata di usare i suoi nuovi s t r u m e n t i d i «s o c i a l networking» per violare le norme che tutelano la «privacy» degli utenti, è destinata ad avere anche un’altra conseguenza. Forse meno evidente nell’immediato, ma di una rilevanza ancora maggiore: la fine dell’illusione del «candore» delle industrie della «Internet economy» . D’ora in poi sarà  assai difficile continuare a sbandierare quella presunzione di «superiorità  etica» rispetto ai «padroni del vapore» dei settori produttivi tradizionali — del petrolio, della meccanica o della finanza — con la quale è stata fin qui giustificata la pretesa di sottrarre questo settore a regolamentazioni severe a tutela degli utenti. Google, ovviamente, è quella che esce meglio da questa vicenda, in quanto vittima di un meschino complotto. Ma anche la compagnia che, scegliendo come slogan aziendale «don’t be evil» (non fare mai del male), negli ultimi anni ha «messo il turbo» al «buonismo digitale» da sempre diffuso nella comunità  internettiana, vede oggi messa pesantemente in discussione la sua verginità : scoperta la tresca, Facebook ha dovuto fare ammenda, ma per il metodo non per la sostanza delle sue accuse che ha, invece, ribadito. La vicenda è tanto curiosa quanto inquietante. Qualche giorno fa UsaToday, coloratissimo giornale d’informazione che non ha grandi tradizioni di giornalismo investigativo e che raramente fa degli «scoop» , racconta una strana storia. Un’agenzia di pubbliche relazioni assai blasonata, la Burson-Marsteller, ha avvicinato il Washington Post, lo stesso UsaToday, un paio di influenti testate dell’informazione digitale (Huffington Post e Politico. com) e un celebre «blogger» che scrive di tecnologie informatiche (Christopher Soghoian), avvertendoli che una nuova offerta di Google ai suoi utenti di Gmail, denominata Social Circles, è stata concepita in modo di carpire un gran numero di informazioni sui singoli utenti, sui loro comportamenti individuali. I giornalisti contattati sentono puzza di bruciato: «Social Circles» è il primo significativo tentativo di Google di recuperare terreno nell’area delle reti sociali nella quale l’azienda di Mountain View non è fin qui riuscita a sfondare. Facebook, ormai arrivata a 600 milioni di utenti, è divenuta un colosso irraggiungibile e ha anche creato un enorme giardino recintato (i cosiddetti «walled garden» ) nel quale per il motore di ricerca di Larry Page e Sergey Brin è assai difficile penetrare. Gli utenti tendono sempre più a cercare le risposte di cui hanno bisogno interrogando la platea degli «amici» anziché il loro motore. Per non restare spiazzata da questa novità  sociale e tecnologica, Google deve a sua volta penetrare nel nuovo mercato delle reti sociali dove il business è quello della vendita di una pubblicità  arricchita dalla cessione agli inserzionisti di molti dati sulle abitudini dei potenziali clienti raggiunti «online» . Larry Page, il fondatore di Google, non vuole rischiare di fare la fine di Microsoft, spiazzata, anni fa, dalla «nuova entrata» Google proprio nel momento del suo massimo splendore: torna al vertice dell’azienda e ordina la controffensiva. «Social Circles» è il primo passo. Che evidentemente spaventa Facebook, spingendola a fare un passo falso. Scelta curiosa, visto che la stessa Facebook è da tempo accusata di aver usato in modo assai spregiudicato il «database» dei suoi utenti. Forse è imbaldanzita dal fatto che negli ultimi tempi è corsa ai ripari con un certo successo, chiedendo e ottenendo da molti suoi utenti l’autorizzazione a usare liberamente i loro dati personali. Ma, con lo sviluppo di tecnologie sempre più raffinate e intrusive della privacy (come i telefoni intelligenti che localizzano l’utente anche quando sono spenti), il clima nell’opinione pubblica sta cambiando non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, tradizionalmente meno attenti alla tutela della riservatezza. La Casa Bianca si è fatta più attenta e a metà  marzo ha invitato il Congresso a varare una nuova legislazione a tutela della privacy. Il Parlamento sta indagando e ha deciso una raffica di audizioni. È in questo clima che Facebook decide di tirare il sasso e nascondere la mano. Burson-Marsteller accetta l’incarico ma quando vede che le cose si mettono male, che i giornalisti sono insospettiti e vogliono far scoppiare il caso, fa marcia indietro e strappa il contratto. Alla fine un’altra celebre testata digitale, il Daily Beast di Tina Brown, nemica giurata dell’Huffington Post di Arianna Huffington, scopre la tresca di Facebook. Ora la parola è al Congresso. 


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