Messi ai margini in abbigliamento casual

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Non è difficile cadere. E cadendo, rimanere invischiati in quella sofferenza muta, pressoché invisibile che, con un termine evocativo, il sociologo francese Robert Castel ha proposto di chiamare désaffiliation. Altri termini sono stati proposti – nuove povertà , sofferenza sociale, sofferenza urbana – ma désaffiliation rende forse meglio non solo il frantumarsi improvviso di un legame, ma la sua più lenta, eppure non meno radicale disarticolazione. Disarticolazione che coinvolge un intero mondo di relazioni che all’improvviso si scoprono fragili, vulnerabili, flessibili al ribasso. Nel 2005 fu Costantin Costa-Gavras, in un suo film ingiustamente sottovalutato, Il cacciatore di teste, a mettere a nudo questo sistema. E a metterlo a nudo – qui sta il punto – «dall’alto». Che cosa succede quando un manager o un lavoratore iper-professionalizzato della conoscenza perdono il lavoro? Quanto resiste una moglie? Quanto i figli? Quanto reggono le relazioni di prossimità , con vicini, amici, parenti?

La concorrenza al ribasso
Servendosi dei codici della commedia, non della tragedia – siamo nell’era della farsa, dopotutto – Costa-Gavras metteva a nudo la crudeltà  di una famiglia e di un ambiente di lavoro pronto a trasformare l’affettività  in anafettività  brutale. Visto il sistema di concorrenza al ribasso, al protagonista José Garcia non restava altra scelta che armarsi, più che di pazienza, di un’arma vera e propria, liquidando darwinisticamente i potenziali concorrenti e «riaffiliarsi», recuperando affetti, stima, rispetto. Fuori dal cinema, le cose potrebbero non essere troppo diverse. Non bastano infatti i dati economici, quantitativi, le comparazioni macrosistemiche, il successivo riempirsi di caselle di occupazione, sottoccupazione o disoccupazione. L’ultima figura della concorrenza al ribasso, se letta per iperbole, potrebbe non essere troppo differente da quella descritta da Costa-Gavras.
In ogni caso, la désaffiliation svela che «povertà » è qualcosa di più complesso e crudele, attenendo alle nostre forme di vita. La povertà  è allora il punto di in cui si condensano una serie di rotture di legame, di fallimenti lavorativi, familiari e di amicizia. È il punto in cui comincia la discesa in quella terra di nessuno da cui si rischia di non tornare più. La disaffiliazione è una spirale: più chi cade si trova in basso, lungo l’articolazioen di questa spirale, più è difficile risalire. Più cadi, più finisci per perdere contatto anche con tuo «sé» più profondo. La grande sfida delle persone che lavorano sulla strada, con i senza dimora è proprio quella di risalire con loro quella spirale. Anche per questa ragione, la povertà  (come il disagio) è multidimensionale e può porsi a diversi stadi di un catena dell’esclusione che dovrebbe aiutarci a considerare la cosiddetta soglia di povertà  non vista in senso senso meramente (e debolmente) statistico, ma in senso fortemente esistenziale.
Nella vita di ognuno di noi possono accadere fatti, cose, situazioni che ci fanno oltrepassare quella soglia. Il tetto, raccontava recentemente un operatore sociale, «sta crollando, ma noi non ce ne accorgiamo, perché guardiamo solo in basso». Un indice di questo «guardare solo in basso» è certamente confermato dalla polemica di questi giorni, tra il ministro Tremonti e l’Istat. Ma anche questo è un sintomo, di un Paese e forse anche di un’Europa che hanno dismesso qualsiasi policy che non sia meramente «emergenziale», togliendo addirittura – come ci ricordano Chiara Saraceno e Pierluigi Dovis nel loro I nuovi poveri. Politiche per le disuguaglianze (Codice edizioni, pp. 72, euro 10) – quello della povertà  da un discorso pubblico monopolizzato da altri fattori. Accade così, osserva la Saraceno, che il fenomeno della povertà , che è sempre stato molto marginale nell’agenda politica italiana, sembra scomparire del tutto, «proprio quando, accanto ai gruppi tradizionalmente più a rischio e alle cause “classiche”, le nuove incertezze economiche del mercato del lavoro e della famiglia stessa allargano l’area della vulnerabilità  a individui e gruppi sociali che credevano di esserne protetti».
Un problema per la democrazia
Oggi, i nuovi poveri hanno volti comuni e familiari, poche cicatrici e vestiti da classe media. Difficile riconoscerli, senza osservare attentamente l’ambiente che li (e ci) circonda. Dovis, raccontando la Torino di questi mesi, racconta l’incontro con «persone classificate come normali, vestite in maniera usuale, con un dire appropriato e con modi molto più spaesati, come di qualcuno che si trovi per la prima volta in un ambiente non suo. Sembravano casi singoli, non anelli di una catena più grande». Come distinguere i nuovi poveri dal resto della popolazione? In quali tratti somatici si condensano, oggi, disaffiliazione, povertà , vulnerabilità  sociale? Come scrive Chiara Saraceno, l’esperienza della miseria e della povertà  è la forma meno accettabile (ammesso ve ne sia una, di accettabile) della disuguaglianza economica. Mutilando o impedendo totalmente di partecipare alla vita sociale e politica, la povertà  finisce col rappresentare non solo un problema morale, né solo un problema di equità  o giustizia sociale, ma anche un problema di democrazia. Meglio tenerne conto, prima di che la farsa descritta da Costa-Gavras si ritrasformi in tragedia, perché a forza di «disaffiliazioni», si può correre il rischio di disaffiliarci anche da ciò che (ancora) abbiamo di umano.


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