Nel covo del tiranno

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TRIPOLI – Quando gli ho dato la notizia dei mandati di cattura internazionali contro Gheddafi, il figlio Saif e il cognato Abdullah Senussi, capo dei servizi segreti, il signore libico di mezza età  ha reagito senza esitare: «Quella è carta e fa meno male delle bombe». Ho obiettato che adesso, essendo ricercato come criminale, Gheddafi non potrà  partecipare a nessun tipo di negoziato. A quest’ultima parola, negoziato, il mio interlocutore è scoppiato in una risata: «Noi non crediamo più alle parole». Era già  sera e Tripoli si vuotava rapidamente. Per due giorni l’ho percorsa nei limiti consentitimi. E queste sono le immagini che o raccolto e le impressioni che ho ricavato. Comincio da una mattina nel cuore della capitale. 
La domanda mi coglie di sorpresa. Il ragazzo, che chiamerò Ahmed, mi chiede perché i miei amici della Nato vengono a bombardare la Libia. Cosa mi ha fatto lui di male perché si comportino in quel modo? Rispondo che a me, lui, Ahmed, personalmente non mi ha fatto proprio niente. Glielo assicuro. Ad eccezione del caffè, aggiungo, troppo zuccherato che mi ha appena servito al banco del suo bar. La risposta non lo soddisfa, ma lo fa sorridere. C’è dunque un po’ di humor in questa capitale messa fuori legge da mezzo mondo, assediata, puntualmente bombardata, per ora soltanto dal cielo, e con il suo leader colpito da un mandato di cattura internazionale, insieme ai più stretti congiunti e complici, il figlio e il cognato. Durante il giorno non si nota nulla di insolito nella città  che nei miei lunghi anni di assenza è diventata metropoli. Sui larghi viali, sotto i grattacieli affacciati sul mare (nel quale domenica facevano il bagno centinaia di libici), il traffico è normale. Forse più smilzo del solito perché manca la benzina e un litro costa decine di volte in più rispetto a cento giorni fa, quando è esplosa la rivolta in Cirenaica.

Sorpreso dal vedere un europeo solitario nel centro di Tripoli, Ahmed vuole sapere per quali misteriose ragioni sono venuto in una città , ufficialmente nemica, sulla quale piovono le bombe dei miei amici. Non mi sospetta di masochismo, ma forse di qualcosa di tenebroso. Che ci fa qui un europeo coi capelli bianchi? Cerco di rassicurarlo ma la risposta questa volta non lo diverte. Sono dunque uno di quei giornalisti che raccontano bugie sulla Libia e su Gheddafi? Qui la conversazione viene troncata perché si è accesa troppa curiosità  intorno a noi. Nessuna espressione ostile. Né un gesto fuori posto. Soltanto interrogativi inespressi in una generale cortesia. In questi primi giorni a Tripoli nessuno si è mai discostato da una dignitosa, a volte cordiale, educazione. Risalgo sul taxi che mi porta dall’Hotel Corinthia, dove sono il solo cronista straniero, all’Hotel Rixos, dove non ho trovato posto. Al Rixos, ottimo albergo con parco, un vero zoo di lusso, sono assiepati, ingabbiati, tutti gli altri corrispondenti, ai quali non è consentito di muoversi senza gli accompagnatori. Io sono fuori mano ma, almeno in apparenza, non sotto sorveglianza.
Ne approfitto per scorrazzare nel centro della città . La trovo eccezionalmente pulita. I negozi sono aperti anche se spesso vuoti. Le vetrine non sono sguarnite. Arrivando dalla Tunisia, lungo i circa duecento chilometri dal confine a Tripoli, mi sono imbattuto fino a tarda sera in colonne di automobili e camion carichi di mercanzie, dalla farina alle scarpe, comperate nei centri turistici tunisini. Soprattutto bidoni di benzina. I libici scambiano tre bidoni di nafta, che hanno in abbondanza, contro un bidone di benzina, che i tunisini ricevono dall’Algeria. Del grande baratto usufruiscono forse anche i mezzi militari impegnati contro i ribelli di Bengasi.
Non raggiungo le zone periferiche, quelle popolari. Né insisto nel chiederlo. Uno straniero curioso, cittadino di un paese ufficialmente nemico, sia pur giornalista accreditato, è senz’altro ingombrante. Mi ricorda Bagdad sotto le bombe americane, nel 2003. Ma Tripoli non è deserta, con la gente asserragliata nelle case com’era la capitale irachena. Tripoli vive. Sulla spiaggia, sotto gli ombrelloni, domenica, c’erano centinaia di tripolini. Erano a due passi dal mio albergo affacciato sul mare. Dove il paesaggio urbano non è troppo pettinato, e dove potrebbero esserci segni di violenza, è un’altra cosa. Precisati i limiti della mia testimonianza, quella che ho sotto gli occhi non è una città  in stato d’assedio. Non vedo militari. Soltanto qualche rarissimo civile col kalashnikov e vigili urbani in tenuta bianca. A tarda sera nella città  semideserta i posti di blocco sono invece frequenti.
Secondo Ibrahim Mussa, portavoce del colonnello Gheddafi, sarebbero state distribuite armi a un milione e duecento mila persone in tutto il paese. Le case basse di un biancore esemplare e i grattacieli vetro e cemento, occupate da banche internazionali, centri commerciali e gruppi petroliferi, da settimane abitati da impiegati sfaccendati o quasi, sono dunque imbottite di armi destinate a difendere Tripoli da eventuali assalti. Anche alle donne sono stati assegnati dei kalashnikov. Erano almeno cinquecento quelle che domenica verso mezzogiorno gremivano un capannone, di solito destinato a fiere o congressi. E alcune di loro, in tuta mimetica e il volto coperto, esibivano con orgoglio i mitra e dimostravano lo spirito guerriero sparando raffiche per aria, come accade nei matrimoni e più in generale nelle feste arabe. I cameramen delle tv occidentali, portati in autobus dall’Hotel Rixos, hanno avuto cosi un’abbondante dose di immagini, destinate dalla propaganda a dimostrare a poco prezzo la volontà  di resistenza del popolo libico. Lo slogan era: «La Libia vuole come solo leader Muammar Gheddafi».
Stando a quel che vedo, l’arsenale d’armi distribuite al popolo, di cui parla Ibrahim Mussa, trabocca di rado nelle strade di Tripoli. Le esibizioni sono disciplinate. Questo induce a pensare che l’apparato militare e poliziesco tiene per ora saldamente in mano la popolazione. E che quest’ultima, pur disponendo di armi, anche se in quantità  inferiore a quella dichiarata, continua a dare, forse nel quadro di un’organizzazione tribale, il suo appoggio più o meno spontaneo o entusiasta al potere di Tripoli. È evidente, la capacità  di resistenza del regime è stata sottovalutata. Dopo cento giorni di incursioni aeree della Nato resta la convinzione che non saranno le forze dell’insurrezione a risolvere il conflitto, ma che si debba contare su un’implosione del regime. Se questa dovesse essere la soluzione, visto l’arsenale d’armi in mano alla popolazione, trovarsi a Tripoli è come essere sul cratere di un vulcano. Eliminato il vertice del potere, sarebbero possibili trattative, e si eviterebbe il bagno di sangue della conquista militare. Ma è teoria.
Gli insorti avvicinatisi di più nelle ultime settimane si troverebbero sulle montagne, a sud ovest, a un centinaio di miglia dalla capitale, in prossimità  della città  di Bir al Ghanam, dove i combattimenti hanno fatto almeno un centinaio di morti. Questo secondo notizie incontrollabili. Altrettanto insondabili sono del resto gli umori prevalenti a Tripoli. Quella che ho descritto non è certo il cuore della metropoli. È soltanto la facciata. Dietro la quale l’annuncio dei mandati di cattura internazionali contro Gheddafi, il figlio Saif e il cognato Abdullah Senussi può avere un effetto più serio di quello che trapela ufficialmente. Una reazione dettata dall’orgoglio è stata quella che ho citato, secondo la quale i mandati di cattura internazionali sono carta, e la Tripoli di Gheddafi è abituata da cento giorni alle bombe della Nato. Ma carta e bombe in questo caso sono collegate.


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