Ogni cosa leggera è pesante

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Dovrei accettare, a questo punto, che quando mi si dice che una cosa è quella, per definizione non può esserlo: che dove sono io, quella cosa non è. Ma fare mia questa lezione richiederebbe gradi di autoconsapevolezza e onestà  che semplicemente non possiedo, e francamente non desidero possedere. Non voglio conoscere me stesso più del necessario. Per cui andai a Praga.
Sapevo, dalla guida turistica, che i tassisti praghesi sono una schiatta particolare. Lo sapevo, e sapevo che il tassista mi stava fregando quando, senza infingimenti né scuse, premette sfacciatamente a ripetizione un tasto sul tassametro proprio al principio della nostra corsa. E però non protestai. Non sapevo come protestare. Sono il tipo di persona che, letteralmente, preferirebbe morire piuttosto che fare una scenata. E non uso letteralmente metaforicamente. Fossi stato seduto nel viaggio d’andata accanto a quel terrorista con l’esplosivo nella scarpa, mi sarei concentrato sulla lettura del catalogo SkyMall mentre lui accendeva il fiammifero e avrei provato molta rabbia nei suoi confronti, e pena per me stesso, e delusione ma non sorpresa per la fine tragica della mia vita sulla terra. Morire a quel modo sarebbe meraviglioso. Ma non sarebbe meraviglioso, perché non sarei vivo a godermi i vantaggi della compassione e dell’amore altrui. Solo i buoni muoiono giovani, ma solo i vivi hanno gli orgasmi.
Quando raggiungemmo l’albergo, il tassista mi disse che erano 412 euro.
«Mi pare un po’ tanto», dissi, sapendo, dalla guida, che dovevano essere sui 40.
Indicò il tassametro come a lasciar intendere che l’avevo offeso. Gli umani possono mentire, diceva il suo dito, ma le macchine no. Forse in futuro potrai a ragione accusare una macchina di mentire, ma fino a quel giorno dovresti pagare ciò che la macchina ti dice di pagare. Mio malgrado, provai un senso di colpa. Quindi provai rabbia per il senso di colpa, perché chi era questo tassista di Praga per farmi provare emozioni di qualunque tipo? Odio i sentimenti negativi non generati da me stesso. L’odio, in sé, è già  un’emozione di quel tipo.
Pagai. Ebbe la faccia tosta di chiedere una mancia. Ebbi la faccia tosta di chiedere scusa e dargliela, sebbene avessi letto che non si usa dare né richiedere la mancia. Preferirei letteralmente morire, e uso letteralmente letteralmente.
La mia stanza era grande quanto bastava per farci stare il letto. La stanza era della misura del letto. La porta si apriva all’esterno, perché non potevi aprirla all’interno a causa del letto, e quando l’aprivi, c’era subito il letto. In qualunque punto della stanza, ti trovavi sul letto. In fondo al corridoio c’era il bagno comune. Il water non aveva la tavoletta, ma non importava, tanto non c’era la carta igienica.
Il mattino dopo fui svegliato alle cinque da una sveglia telefonica che non avevo richiesto. Era una voce registrata, e le voci registrate non possono mentire, per cui a quanto pareva avevo ordinato una sveglia, nonostante non ci fosse né un servizio di sveglia telefonica automatica né qualcuno a rispondere al telefono alla reception. Mi vestii, feci una doccia senza il saponcino o lo shampoo o l’acqua, bevvi del caffè tiepido dalla caffettiera dietro il bancone della reception deserto dell’albergo accanto, e scarpinai fino al consolato americano.
«Come posso aiutarla?» mi chiese una ragazza dietro dieci centimetri di vetro antiproiettile. Stando in punta di piedi riuscivo a vedere una porzione sufficiente del suo seno da farmi venir voglia di provare a vedere una porzione ulteriore del suo seno.
Le dissi: «Sono arrivato dall’America ieri notte, e nel viaggio dall’aeroporto il tassista si è approfittato di me».
La cosa suonò più sessuale di quanto avrei voluto. Non volevo affatto che suonasse sessuale nel senso che il tassista aveva allungato le mani su di me. Questo a che mi sarebbe servito? Ma volevo che suonasse sessuale nel senso di farle capire che avrei voluto allungare le mani su di lei. Solo lei sapeva se la frase era suonata sessuale in quel senso.
Per assicurarmi che non ci fossimo fraintesi, chiarii: «Ha premuto più volte il pulsante del tassametro, aggiungendo in qualche modo delle tariffe extra, e quando abbiamo raggiunto l’hotel il prezzo della corsa era astronomico».
«Quanto?» chiese lei.
«Circa trecento euro».
«Trecento euro?»
«Perciò voglio sporgere reclamo».
«L’ha pagato 300 euro?»
«Ero esausto, ed è la prima volta che vengo qui. E avevo bisogno di andare in albergo».
«Ma era già  arrivato all’albergo».
«È vero, ma in un paese straniero e con una quantità  notevole di bagagli».
«Come mai tanti bagagli?»
«Non erano così tanti, in senso oggettivo, ma ho la sindrome del tunnel carpale, per cui le cose leggere mi risultano pesanti, e per come la percepivo io, la quantità  dei miei bagagli era notevole. In definitiva, non volevo fare una scenata lì per lì».
«Glielo ha detto che era troppo?»
«Certo».
«E lui?»
«Cosa stiamo facendo, uno sceneggiato della Pbs? Intende aiutarmi o no?»
«Ce li ha i dati dell’autista?»
«So per certo che la matricola comincia con un CX o un XC».
«Non credo di poterla aiutare».
«Perché no?»
«Mi sta chiedendo di agire da investigatore privato».
«Le sto chiedendo di proteggere un vostro cittadino contribuente».
«Può esporre reclamo al distretto di polizia. È possibile che la sappiano aiutare. Ma se fossi in lei, mi metterei alle spalle lo sfortunato incidente e mi godrei la vacanza».
Ma lei non era me. Ma avrei tanto voluto lo fosse. Intendo proprio questo? Che mi piacerebbe essere lei e masturbarmi. Questo, intendo. Ma neanche esattamente questo. Vorrei essere lei che si masturba se potessi però anche essere me, nel senso del me che non è lei, in piedi in un angolo, a masturbarmi guardando il me che è lei che si masturba. Chiaro, è solo uno stupido sogno.
Andai in un ristorante consigliato dalla guida per riorganizzarmi. Che senso ha un menù con un solo piatto? Fingere di darti una scelta è più irritante che non dartela proprio. Mentre aspettavo il cibo ho acceso l’iPad, sono andato sul sito del consolato americano a Praga, ho cliccato su “Il nostro staff” e ho trovato la donna che mi aveva aiutato. Si chiamava Cecilia Warren. Un nome non carino. Per niente, in nessun senso, un nome che fosse o potesse mai essere anche solo remotamente carino, o generosamente fatto passare per carino. Potevo conservare l’attrazione per lei ora che conoscevo il suo nome radicalmente non carino? E non era, questo, il genere di via di fuga di cui avevo bisogno? Ecco che il montone annullava il sacrificio. Via, sciò, sono Cecilia. Qui non sei gradito.
E tuttavia provavo il forte desiderio di superare la ripugnanza per il suo nome. Volevo volermi masturbare guardando me che ero lei che si masturbava nonostante il suo nome nauseante, e ciò mi fece sentire improvvisamente gonfio di benevolenza. E per lo meno mitigò il senso di ripugnanza. Ero una persona cattiva con un lato buono.
Guardai la sua pagina di Facebook, ma non veniva aggiornata da un paio di mesi. Cercare il suo nome su Google non rivelò niente di fondamentale, sebbene ci fossero varie altre Cecilie Warren, fra cui un paio che avrei guardato molto volentieri nei panni di me stesso in un angolo e così via. Fui sopraffatto all’improvviso e a sorpresa dalla rabbia per il tassista che mi aveva inculato – inculato metaforicamente. Perciò scrissi un’email.

Gentile signorina Warren,
sono stato nel suo ufficio pochi minuti fa, nel tentativo di porre rimedio a un infelice caso di prevaricazione tassistica. Le scrivo ora poiché mi è occorso di pensare che non l’ho ringraziata a dovere per la sua assistenza. (Anzi, nemmeno sono certo di averla ringraziata!) Io e il mio esteso bagaglio – ah! – saremo a Praga per quattro giorni, e se lei ha tempo sarei lieto di portarla fuori a cena (o a bere, o qualunque cosa) per dimostrarle la mia gratitudine. Controllo l’email con molta frequenza.
Saluti,
Ruben Feinberg-Horowitz

Rimpiansi la frase «Controllo l’email con molta frequenza» appena l’ebbi spedita. Rimpiango quasi sempre l’ultima frase di ogni mia comunicazione, perché è il risultato dell’inspiegabile bisogno di dire una frase in più invece che del disporre di contenuto sufficiente per riempire una frase in più. Cercai di smussare la sensazione di imbarazzo spedendo una seconda email.

Quando ho scritto che «controllo l’email con molta frequenza», intendevo semplicemente che ho portato in vacanza l’iPad. Penso che a Praga la copertura wi-fi sia perfino migliore che in America! No, certo che no, ma la copertura è sorprendentemente buona, considerato tutto. In ogni caso, non intendevo con ciò dare a intendere che ero in qualche maniera disperato.
Saluti,
Ruben Feinberg-Horowitz

Controllai d’istinto la posta non appena premuto Invia sulla seconda email. Non avrebbe avuto ancora tempo di ricevere le mie email, figuriamoci leggerle, figuriamoci rispondere, ma c’era sempre la possibilità  che mi stesse spedendo un’email simile a quella che le avevo spedito io, e che le nostre lettere si fossero incrociate.
Il cameriere mi portò il conto e sgattaiolò via. Esaminai il conto e lo richiamai.
«C’è qualcosa che non capisco, qui», dissi. «Sembra che mi siano stati messi in conto il sale, il pepe, il ketchup e la mostarda».
«Esatto», disse lui.
«Ma perché?»
«In che senso, perché?»
«Perché mi avete messo in conto i condimenti?»
«Perché li ha usati».
«Lei parla inglese?»
«Stiamo parlando inglese».
«Senta, non c’è scritto da nessuna parte, sul menu o altrove, che si devono pagare queste cose».
«È necessario scriverlo da qualche parte, che quello che si mangia va pagato?»
«Mi avete fatto trovare questi condimenti al tavolo», dissi, non abboccando al suo amo antisemita. «Non li ho ordinati».
«Li ha usati».
«Li ho usati perché erano in tavola».
«Signore, questo è il suo conto».
«Chiaramente, ma non vale a giustificare ciò che contiene. Se lei uccide qualcuno non dice alla polizia: “Agente, questo è il cadavere” e poi pretende di esser lasciato andare. Voglio dire: se sul menù ci fossero state due righe per spiegare che i clienti dovevano pagare i condimenti, non solleverei la questione adesso, perfino se fosse stato scritto in caratteri incredibilmente piccoli e sbiaditi».
Il suo volto cambiò espressione, in una maniera che faceva presagire violenza. Cercai di calmarmi con pensieri su quanto fosse povero questo stupido cameriere ceco, e su come i cinema di Praga fossero pieni di film già  usciti in dvd negli Stati Uniti. Mi sentii meglio? Mi sentii meno male. Pagai il conto, e lasciai una mancia così infinitesima che era più offensivo che non lasciarne affatto.
Andai a piedi al distretto di polizia, perché mi venisse un colpo ma non intendevo prendere il taxi. Mi slogai una caviglia su un penoso surrogato di marciapiede. Ogni cosa sapeva di lavanderia o pesce affumicato. Entrai zoppicante e venni condotto in una sala d’attesa da una donna col pomo di adamo. Passai cinque ore su una sedia con schienale non ergonomico. La tv ceca è una barzelletta involontaria. Non mi serviva sapere il ceco per capire quanto erano patetiche le loro trasmissioni. In America alcune non sarebbero sopravvissute neanche cinque minuti.
Per fortuna avevo portato con me la guida. Non c’è niente di meglio che leggere di un posto in cui ti trovi. Quando sono a Washington passo spesso la serata a leggere storie della città , o pamphlet della Fondazione Architettura, o guide di quartiere per turisti. È narcisistico o ammirevolmente onesto ammettere che una delle ambizioni della mia vita è figurare in una guida futura di Washington? Dovrò probabilmente assassinare qualcuno di davvero importante perché ciò accada. Cosa che non farò. Magari solo sapere che c’è la possibilità  mi basta.
Alle 4,20, un uomo grasso coperto di peli pubici uscì a dirmi che il distretto stava per chiudere.
«Ma sono solo le 4,20. Mi avete detto che rimaneva aperto fino alle 5,00».
«Siamo aperti finché non chiudiamo. E chiudiamo fra cinque minuti».
«Alle 4,25? Nemmeno aspettate le 4,30?»
«Esattamente. Ma il suo posto in fila è stato conservato. Glielo posso assicurare».
«Non voglio che mi si conservi il posto. Voglio parlare con qualcuno adesso. Ho già  sprecato un giorno della mia vacanza».
«Mi spiace, signore, ma stiamo chiudendo. Torni giovedì, prego».
«Giovedì? E domani?»
«Domani è vacanza. È tutto chiuso».
«Cosa si festeggia?»
«C’è il ponte».
«Ma per quale ricorrenza?»
«Mi spiace».
«Non posso avere cinque minuti del suo tempo? È tutto il giorno che aspetto».
«La mia risposta è no».
«Cinque minuti».
«No».
«Chi ha una vacanza che non festeggia nulla? Mi pare triste. In America abbiamo sovrabbondanza di cose da festeggiare, e detto con franchezza non abbiamo abbastanza giorni».
«Stiamo chiudendo».
«Posso dirle una cosa?»
«No».
«Beh, gliela dico comunque: ero sinceramente intenzionato ad apprezzare Praga».
Tornai in albergo e controllai se Cecilia Warren aveva risposto. Non ancora. Riflettei se spedirle un’altra email, in caso le prime due non fossero arrivate, come a volte accade. Potevo aspettare un altro giorno, ma ero lì per solo due giorni ancora, e se poi finiva che ci intendevamo? Avrei rimpianto di non averle spedito un’ulteriore email in modo da avere il massimo possibile di tempo a disposizione. Come forma di compromesso con me stesso, rispedii la prima email, con il seguente preambolo: «Mi scuso per l’eventuale ridondanza, ma le mie email a volte non arrivano, non so perché. Ciao». Mi pentii immediatamente del «Ciao».
E adesso? Mi venne di pensare che avevo conservato una discreta immagine mentale del tassista. Perché non ci avevo pensato prima? Presi l’iPad e andai in un caffè, dove nemmeno rivolsi lo sguardo ai condimenti. Il cameriere mi domandò se avevo deciso e gli dissi che non volevo il solo piatto presente sul menu, e non volevo nemmeno un bicchiere d’acqua. Vincere fu una sensazione magnifica. Feci delle ricerche di immagini e trovai una faccia che pareva ragionevolmente simile al mio ricordo di quella del tassista. Con Photoshop feci un finto manifesto per un ricercato. Chiamai il consolato.
«Salve, cerco Cecilia Warren».
«La signorina Warren non è di turno. Posso aiutarla in qualche modo?»
«È in malattia?»
«Come, scusi?»
«Ripeto: “È in malattia?” Lei chi è?»
«Chi è lei?»
«Possiamo piantarla con i corsivi?»
«Conosce Cecilia?»
«Sì. La conosco».
«È in vacanza».
«A festeggiare nulla, immagino».
«Signore, vuole lasciarmi un messaggio? O posso aiutarla in qualche altro modo?»
«Ho bisogno di aiuto per tradurre una cosa».
«Qui non offriamo servizi di traduzione. Ma posso indicarle un…»
«Non cerco servizi. Mi serve un aiuto per tradurre una frase».
«Come le ho detto…»
«Senta, potevamo aver già  finito, e invece lei mi ha sottoposto a questa trafila insensata. Non cerco servizi. Devo tradurre una frase. Ci vogliono trenta secondi».
«Mi dica la frase».
«”Questa persona, solo più magra e senza baffi, sta stuprando dei bambini di questa città “».
«Prego?»
«La frase è questa. “Questa persona, solo più magra e senza baffi, sta stuprando dei bambini di questa città “».
Decisi di passare il resto del mio soggiorno a Praga tappezzando la città  di volantini. Ma l’area business dell’albergo non aveva una stampante che stampasse. E non c’era un’area business. Mi dissero che c’era una copisteria a due sole fermate d’autobus. Me la feci a piedi, per non dover tollerare l’imbarazzo di capire, in tempo reale, come funzionasse il sistema di trasporti pubblici di una città  straniera. Non mi sorprese che il negozio si trovasse ben più lontano di quanto fossi stato indotto a credere. E si mise a piovere. E la copisteria era chiusa per via della festività  immotivata del giorno dopo. E mi slogai l’altra caviglia. E siamo ben oltre il punto in cui possiamo fermare il riscaldamento globale. E la malaria uccide un bambino ogni trenta secondi. E probabilmente non esiste l’aldilà .
E comunque, quanto è ridicolo Cecilia, come nome? Cos’è, finto italiano? Non le stavo chiedendo una conversione, solo di mangiare insieme e semmai impegnarci in pratiche benignamente perverse. Si credeva meglio di me? Era meglio di me – altrimenti perché mai le avrei scritto? – ma ciò non la autorizzava a pensarlo, né tantomeno ad agire a quel modo. Sono meglio di molta, molta gente, ma non ne faccio un vanto.
E sapete una cosa? Non avevo nemmeno usato la mostarda! Perché mi venne in mente solo allora? Il sale, sì. Il ketchup, colpevole. Ma la mostarda non l’avevo toccata. Nemmeno mi piace, la mostarda. Detesto la mostarda. La teoria di quel cretino di un ceco era che si deve pagare per ciò che si usa, stando a quella logica – stando alla sua logica – avevo pagato un quinto di troppo. Potevo tornare al ristorante e chiedere indietro il corrispettivo di quella frazione di condimento. Ma come potevo dimostrare di non aver usato la mostarda? Gli avrei fatto sentire il mio alito, ma erano passate già  diverse ore. E non volevo dargli la soddisfazione.
Quando tornai in albergo, ero esausto e quasi distrutto. Disegnai una pubblicità  contro Praga per il New York Times, sapendo che non avrei mai potuto permettermi di pubblicarla, ma ottenendo una piccolissima vittoria a livello di idee. La misura di una vittoria è quasi sempre inversamente proporzionale alla sensazione di trionfo.
Nel letto a dimensione stanza della stanza a dimensione letto, al bagliore intermittente dell’unica lampadina, decisi di controllare la posta un’ultima volta. Non potevo tollerare il pensiero che lei-con-l’innominabile-nome si fosse magari fatta sentire, avesse sporto una mano digitale verso il mio cuore battuto ma battente, avesse scritto: «Scusa se mi ci è voluto tanto a risponderti. Giornata folle, te la racconto dopo. Non mi crederai, e invece sì. Mi crederai perché sei tu. Qui stiamo chiudendo bottega, e mi piacerebbe tanto accettare quella cena e quella fantasia masturbatoria narcisistica, se ancora ti va. Ho sentito che odi la mia città  adottiva. Ho sentito che non ti piace il mio nome. È che hai pensato a voce molto alta. Credi che io ti consideri un seccatore, invece per me sei eccezionale. Ho sentito che facevi incubi sullo tsunami. Ho sentito che hai il tunnel carpale dell’anima: ogni cosa leggera ti pare pesante. Ho sentito che hai sentito tuo padre dire a tua madre: “È un peccato che ci siamo trovati, io e te”, ma è stato trent’anni fa. La memoria è lunga, Ruben, ma la vita è breve, ma l’esperienza è infinita. Sono così felice che sei venuto. Non c’è niente di meno magico dei giorni. Non capita mai niente. Ma sei capitato tu. Sei capitato a me. Avresti potuto fermarti alla tua richiesta, ma non l’hai fatto. Saresti potuto rimanere intrappolato sotto il ghiaccio della tua timidezza, ma non è stato così. Non è meraviglioso che per quanto della nostra vita terrena sia già  dietro le nostre spalle, continuiamo a credere che l’incredibile non solo sia possibile ma inevitabile? Accadrà . Accadrà . Solo, non a noi. Ho vissuto la vita più noiosa nella storia dell’umanità . Sono stata seduta con le mani in mano e il cuore in un pugno. Non credo in nulla da anni, ma non ho mai smesso di credere nell’importanza di credere. Accadrà … Accadrà …. E avevo ragione a essere tanto stupida. Avevo ragione ad alzarmi ogni mattina. Avevo ragione a temere che sarei morta senza mai esser vista per intero da nessuno, ma avevo torto a nascondermi dietro quella paura, ma ragione a svegliarmi ogni mattina con queste parole sulle labbra: Accadrà . Anche se non a me, accadrà . Avevo ragione perché sei arrivato tu. Tu sei arrivato da me. E tu sei perfetto, amore mio. Tu sei la cosa ideale».
Traduzione di Francesco Pacifico


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