Un bunker per fermare Hitler

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La congiura, la salvezza e forse la santità : comunque sottoterra. A parziale, ma sostanziale disdetta della neutralità  della Santa Sede, tra il 1939 e il 1945 Pio XII congiurò contro Hitler e in seguito fece mettere in salvo diversi ebrei romani, convertiti e non, in quello stesso fantastico e impensabile luogo dell’ipogeo dove diciannove secoli prima era stato sepolto il primo pontefice della storia, quello che nell’iconografia possiede le chiavi del Paradiso.
Papi, dunque, apostoli, nazisti, archeologia e spionaggio. Che già  basterebbe. Ma quando le vicende si intrecciano nella città  eterna, può anche accadere che nell’oscurità  degli scavi sotto la basilica di San Pietro fioche lampade all’acetilene illuminino reliquie dimenticate in una cassetta, equivoci e beghe fra epigrafisti, bassi intrighi di curia e strategie geopolitiche. Per cui dalle reti dei pescatori del lago di Tiberiade, seguendo il racconto, si finisce per entrare, prima con diffidenza poi con appassionata curiosità , nelle grotte vaticane dove Pio XII, appena eletto, intende fare spazio per la tomba del suo predecessore. È la vigilia della Seconda guerra mondiale, ma poi anche nei palazzi apostolici tutto si fa drammatico e fra ambasciatori inglesi e benefattori ebrei, cardinaloni fascisti e coraggiose suorine, si imbastisce una trama di audacie, delazioni, lacrime, sacramenti, bombardamenti, treni blindati, silenzi, preghiere e sotterfugi.
Solo a Roma Barbara Frale, studiosa dei Templari e della Sindone, ricercatrice dell’Archivio Segreto Vaticano, poteva ambientare questo suo molto, forse troppo impegnativo Il principe e il pescatore (Mondadori, 360 pagine, 20 euro), a proposito del quale con inesorabile scetticismo romano si sarebbe addirittura portati a dire, ma non lo si dice: se non è vero, è molto ben inventato.
E non suoni come discredito per un lavoro dichiaratamente e quindi onestamente, ma pure fin troppo risolutamente agiografico rispetto alla discussa figura di Pio XII. È che comunque la storia che qui è raccontata appare talmente ricca e suggestiva che il giornalismo l’accoglie d’istinto come una manna dal cielo; e più ancora le darà  il benvenuto il mondo dalla fiction televisiva, che per i papi e i santi in questi momenti frivoli e spietati ha un indubbio interesse.
Dunque, il Principe è papa Pacelli, in effetti il più valoroso e anche il più slanciato, ieratico e scenografico tra i patrizi romani, categoria invero da prendersi con le pinze. Mentre il Pescatore è San Pietro, già  Simone, il primo degli apostoli, martire a testa in giù e fondatore di Santa Romana Ecclesia. I cui sacri resti a partire dal 1939 Pio XII ordina di cercare con personalissimo ardore, come antidoto all’intellettualismo modernista, nell’immensa necropoli sepolta sotto la basilica apostolica, che poi sono due, quella costantiniana e poi quella rinascimentale. E saranno ritrovate in effetti nei primi anni Cinquanta, queste sacre ossa attribuite a San Pietro, sia pure in forme avventurose, grazie soprattutto all’opera di Margherita Guarducci, in competizione con altri ragguardevoli personaggi che in parte seguitavano a cercarle nei posti sbagliati e in parte le avevano già  trovate senza saperlo. Ma l’irresistibile novità  da fare invidia a Dan Brown è che attorno ai grandiosi scavi nelle grotte vaticane, nel misterioso cantiere mantenuto aperto alla ricerca delle reliquie nelle viscere della cristianità  finì per operare una vera e propria rete di spionaggio antinazista allestita da Pacelli all’insaputa della Segreteria di Stato e cioè dei cardinali Montini e Tardini, di cui tutto si può dire meno che fossero degli allocchi.
Dopo di che, nel medesimo sottosuolo, tra pale, carriole, detriti, sarcofagi e i marmi dei magnifici mausolei pagani e cristiani, grazie a un’organizzazione gestita più o meno dagli stessi fidatissimi per conto del Papa, riuscirono a salvarsi la pelle centinaia e forse migliaia di ebrei, alcuni dei quali anche travestiti da operai scavatori e “sanpietrini”. E a questo punto occorre lealmente precisare: se sulla figura di Pio XII e sul suo atteggiamento nei confronti del nazismo e degli ebrei non si fossero accumulati decenni di polemiche, controversie, dubbi e preoccupazioni la lettura de Il principe e il pescatore, che tra l’altro inizia con una citazione da una canzone di De André («All’ombra dell’ultimo sole, s’era assopito un pescatore»), risulterebbe molto più serena. E forse anche il racconto scorrerebbe più leggero, senza iperprofusione documentaria e senza destare sospetti di lacune (una fra tutte, purtroppo: La Resistenza in convento di Enzo Forcella), né occhiute verifiche di fatti privi di riferimenti bibliografici o di eventuali forzature, senza soprassalti di sconforto perché l’autrice, in un passaggio un po’ così, ha anche citato i diari fasulli di Mussolini, e proprio sulla questione degli ebrei, dove il Duce guarda caso risulta particolarmente benigno.
Perché la storia che qui si racconta è per sua natura incerta e contraddittoria e vive di suggestioni, di specchi, di astuzie che si sdoppiano in un gioco sempre più rischioso. Tutto ruota attorno a un paio di monsignori tedeschi, uno è l’uomo a cui papa Pacelli, a lungo nunzio apostolico a Berlino e poi Segretario di Stato di Pio XI, ha affidato l’operazione di ritrovamento delle sante spoglie nel sottosuolo vaticano: Ludwig Kaas, già  uomo politico del Partito popolare in Germania e ora economo e segretario della Reverenda fabbrica di San Pietro; l’altro è il coltissimo segretario personale di Pacelli, padre Robert Leiber, un gesuita che insegna all’università  Gregoriana.
Sono loro che lontano da sguardi indiscreti, in una Curia che già  pullula di spie e delatori al servizio dei fascisti e dei nazisti, accolgono le periodiche visite di un agente segreto tedesco, Joseph Mà¼ller, a più riprese spedito a Roma da un gruppo di generali «senza svastica» che fin dal 1938 cospirano contro Hitler e che attraverso questa specialissima rete apostolica e sotterranea, nel senso autentico della parola, fanno arrivare agli alleati, attraverso l’ambasciatore britannico presso la Santa Sede sir D’Arcy Osborne, addirittura i piani di guerra del Fà¼hrer, in vista di una possibile pace che salvaguardi l’integrità  della Germania.
Però poi tutto va in altra direzione. Ma contemporaneamente, anche se attraverso canali meno personali, direttive, note cifrate, circolari e contatti con benefattori la Santa Sede ingaggia una massiccia opera di assistenza agli ebrei, in un primo momento per farli emigrare attraverso la Società  San Vincenzo e l’Opera San Gabriele; e poi per proteggerli, naturalmente in gran segreto, quando la persecuzione richiede di pagare riscatti, falsificare documenti e soprattutto nascondere le persone, anche dietro il cancello di bronzo, con i suoi intrepidi personaggi e i rischi del caso – vedi il progetto delle SS di sequestrare il Papa e trasferirlo nel Lichtenstein.
E davvero non si ha alcun titolo per emettere giudizi definitivi su Pio XII: se abbia fatto tutto quel che poteva, e ancora meno è il caso di stabilire se meriti o meno la gloria degli altari. L’opinione più sensata è parsa di coglierla in una pagina molto felice in cui l’autrice ha ritenuto, e giustamente, di riportare la semplice testimonianza di sua nonna, Renata Baldini, che dopo il bombardamento degli Alleati sullo scalo San Lorenzo si ritrovò faccia a faccia, per strada, con il Papa giunto quasi in incognito a rendersi conto di persona, ma anche a pregare e dare una mano tra i feriti. Ebbene quell’uomo, quell’aristocratico, quel pontefice, le parve lì per lì «un povero cristo secco come un chiodo che non sapeva più dove mettersi le mani, con la città  occupata dai tedeschi». Là  dove la vera Maestà , più che ai principi, appartiene forse ai poveri cristi, ai loro necessari equivoci, alle loro gloriose sofferenze.

 


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