Perché prendersela con le agenzie di rating

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 La domanda se siano giustificate le valutazioni delle agenzie di rating sul debito pubblico portoghese o italiano che si affaccia in questi giorni sulla stampa è una domanda in realtà  malposta.

Se le valutazioni delle agenzie siano davvero corrette alla fine non è rilevante. Di fatto, la funzione delle agenzie è quella di coordinare e indirizzare l’attività  speculativa verso obiettivi profittevoli. La domanda che ci si deve allora porre è un’altra: un attacco speculativo coordinato e ripetuto nel tempo è in grado di portare Portogallo e poi Spagna e Italia nella stessa situazione di insostenibilità  del debito pubblico in cui versa oggi la Grecia? La risposta, su cui concordano tutti gli osservatori autorevoli, che si tratti dei commentatori del Financial Times Martin Wolf o W. Munchau e del Wall Street Journal Simon Nixon (e si veda anche sul Sole 24 Ore del 9/7 l’intervista a Alessandro Guzzini), del ‘guru’ della finanza George Soros, o di noti economisti di diverso orientamento (ad esempio A. Sen e Brad De Long) è: certamente sì, a meno che, e questa è l’unica possibilità  di salvezza, la Bce non compia una svolta radicale nella propria politica e intervenga in modo tale da garantire bassi tassi di interesse sui titoli del debito sovrano di tutti i paesi europei, non diversamente di quanto ha sinora fatto la Federal Reserve nei confronti del debito pubblico americano. Gli strumenti tecnici e le proposte in tal senso non mancano, non ultima quella circa la creazione di eurobonds recentemente sottoscritta da firme molto autorevoli, tra cui quella di Giuliano Amato. Quella che finora è mancata è la volontà  politica. Ma allora l’Europa dovrebbe prendersela con se stessa prima ancora che con le agenzie di rating.
Si dirà : ma certo se la speculazione attacca questi paesi e non altri debbono esservi delle ragioni. Certamente è vero che i paesi della periferia europea hanno delle debolezze strutturali, in primis la difficoltà  a mantenere in pareggio i propri conti con l’estero (cioè a esportare quanto importano) legate, tra l’altro, all’impossibilità  di governare il tasso di cambio in modo appropriato per le proprie economie. Ma dopo la crisi del 2008 sono molte le economie e i sistemi bancari nazionali ad avere delle fragilità  strutturali, e altri paesi come il Giappone e la Gran Bretagna ad esempio, hanno debiti pubblici più elevati in rapporto al Pil di quello di paesi europei oggi in difficoltà . La ragione ultima dell’attacco verso la ‘periferia’ dell’Europa (e di nuovo, su questo consentono gli osservatori internazionali), sta nel fatto che a differenza di altri paesi, quelli europei hanno abdicato alla propria sovranità  monetaria e non hanno dunque una banca centrale nazionale che possa operare in modo da difendere il paese dalla speculazione, oppure in modo da rilanciarne le esportazioni e la crescita attraverso una (pur costosa per molti versi) scelta di svalutare il cambio. D’altra parte la Bce non sta agendo (e non ha attualmente il mandato politico per farlo) in modo da difendere le economie di questi paesi nell’unico modo che sarebbe efficace, e cioè, come si è detto, intervenendo in modo da ridurre i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico.
Sul Sole 24 Ore del 9 luglio Perotti e Zingales sostengono che la situazione è drammatica, ma c’è una via d’uscita per l’Italia che consiste nel varare rapidamente misure di austerità  più severe e più rapide di quelle sinora previste, pari al 4% del Pil tra aumento delle entrate e riduzione della spesa, in modo da raggiungere rapidamente il pareggio nel bilancio pubblico complessivo, cioè comprensivo degli interessi pagati ai possessori dei titoli del debito pubblico. Essi ammettono che si tratterebbe di misure durissime, perché una manovra di queste dimensioni dovrebbe necessariamente richiedere, oltre ad aumenti delle imposte, tagli severi a pensioni e stato sociale (quindi scuola, sanità  ecc.) e inoltre la privatizzazione e vendita di tutte le società  pubbliche o a partecipazione pubblica (Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Rai sono gli esempi citati). A questo già  severo quadro tracciato da Perotti e Zingales bisognerebbe poi aggiungere gli effetti complessivi sull’economia di una tale manovra, che comporterebbe non solo i tagli sopra descritti ma anche di conseguenza una caduta della domanda e del Pil, e dunque della produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione di dimensioni paragonabili a quanto accaduto sulla scia della crisi finanziaria del 2008, e che a quelli si andrebbero ad aggiungere, dato che l’economia italiana non si è ancora ripresa e ha livelli di produzione e occupazione significativamente al di sotto di quelli pre-crisi.
Il prezzo dunque è estremamente alto. E tuttavia, vista la drammaticità  della situazione, dobbiamo chiederci se ciò potrebbe davvero mettere l’Italia al riparo. La risposta è un secco no. Basti qui una riflessione: i conti su quanto si debba tagliare per portare il bilancio in pareggio sono fatti per volumi di pagamenti degli interessi sul debito che riflettono i tassi di interesse correnti. Ma se la speculazione finanziaria rimane libera di determinare i tassi di interesse sul debito pubblico, questi possono, come per la Grecia e poi per il Portogallo, schizzare a valori tali da rendere impossibile, non importa con quali sacrifici, raggiungere il pareggio di bilancio, e ciò a causa dell’aumento vertiginoso della spesa per il pagamento degli interessi. Poiché tale attività  speculativa è possibile e lucrosa, perché mai non dovrebbe essere intrapresa? In che modo i sacrifici descritti potrebbero porvi termine? Al contrario, i loro effetti economici recessivi danno ulteriore benzina alla speculazione.
* Docente di economia politica all’Università  di Roma 3 (una versione più estesa è uscita su economiapolitica.it)


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