I bambini perduti d’Albania murati in casa per sfuggire alle faide

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SCUTARI (Albania) — Due fratelli di 17 e 15 anni, Darjan e Vladimir (nomi fasulli sotto cui si celano autentiche persone) hanno trascorso l’infanzia e l’adolescenza barricati in casa e non ne sono mai usciti neanche per andare a scuola. Un totale, quasi disumano isolamento dovuto solo in parte alla decisione dei genitori di risparmiare ai figli il contatto prematuro col mondo degli adulti, una comunità  particolarmente rissosa e violenta.

Ma non si tratta di un caso isolato. In questi ultimi anni si è fatta sempre più fitta l’emigrazione dei montanari albanesi che, abbandonati case, stalle e ovili sulle alture della regione settentrionale, sono scesi a valle in cerca di lavoro e di pace. Soprattutto di pace. Perché lassù la vita è tutt’altro che idilliaca.

L’intero territorio è conteso dalle faide sanguinose di 20 mila famiglie — l’una contro l’altra armate — che dal 91 ad oggi hanno causato la morte di quasi 10 mila persone e impedito a più di mille bambini di imparare l’alfabeto.

La carneficina è cominciata una notte d’estate del duemila in un villaggio di montagna con una rissa d’osteria, quando secondo la testimonianza di un giornalista inglese un ubriaco — certo Pellumb Morevataj — sparò a un compagno di bisboccia che aveva insultato la sua famiglia, uccidendolo. Negli anni successivi una serie di vendette e controvendette fece altre vittime, tra cui lo stesso Pellumb e i suoi fratelli poiché sta scritto nel Kanun (il codice del 1400 che copre e regola, in Albania, tutti gli aspetti dell’esistenza) «il sangue deve essere pagato col sangue».

Anche nelle copie più recenti del libro, apparse all’inizio del ventesimo secolo, il Kanun sostiene la necessità  di mantenere la tradizione della vendetta mentre al tempo stesso viene incoraggiato ogni tentativo nel processo di riconciliazione nazionale, affidato ai cosiddetti Moderatori cui spetta il compito di avviare approcci pacifici tra le due parti con «rituali — scrive un giornale con macabra ironia — dove si bevono bicchieri di brandy, misto al sangue degli uni e degli altri».

Uno di questi mediatori, Alexander Kola, si è dovuto occupare un giorno di un caso che non comportava certo una vendetta mortale: l’uccisione di un gelataio che s’era rifiutato di vendere un cornetto a un bambino. «Per fortuna — dice — questi eventi barbarici sono in diminuzione. Oggi si parla meno di vendetta e assai più di riconciliazione. La gente deve tornare allo spirito del Kanun, che viene dal cuore e si diffonde soprattutto nella nostra provincia: per noi, chi uccide un compagno uccide se stesso. Durante gli anni della dittatura non ci furono vittime perché Hoxha aveva bandito la tradizione della vendetta, che è riemersa, ma più timidamente, dopo la sua morte».

Davanti al mio albergo, al centro della città , si erge la cupola di una moschea mentre appena più in là , a un chilometro circa di distanza, svetta il campanile di una chiesa cattolica: e così, appena sveglio, puoi ascoltare contemporaneamente il canto dei muezzin e i rintocchi delle campane, due linguaggi che non riescono mai a fondersi. «In realtà  â€” commenta Kola — esiste nel Paese una buona armonia nel rapporto tra cristiani e musulmani».

A soffrire punizioni, persecuzioni e vendette non sono soltanto gli autori del crimine ma, quando ve ne siano, i parenti maschi della famiglia ritenuta responsabile: come infatti è accaduto a Samir Zizo, fratello di Sheptim, condannato all’ergastolo per aver violentato e ucciso una ragazzina di 10 anni, che trascorre i suoi giorni in una vecchia fabbrica sovietica di Tirana, da tempo inattiva. Solo, depresso, con il cervello e lo stomaco che funzionano ormai a scartamento ridotto, ha ammesso che preferirebbe essere rinchiuso in carcere come Samir: ma la sua richiesta di perdono o, quanto meno, di cambiamento e riduzione della condanna è stata freddamente respinta dalla famiglia della vittima. Il dramma dei fratelli Darjan e Vladimir, barricati in casa e incollati alle facezie del televisore da mane a sera, è condiviso in Albania da legioni di alunni e studenti che faticano a conseguire un semplice attestato, per non parlare di diploma o di laurea. È quanto emerge dalla conversazione col vicepreside della scuola di Bardhaj, Leke Pjetri, che ha dedicato gran parte della sua vita all’insegnamento, elementari e medie: «Sono tante le famiglie che non mandano i figli a scuola — esordisce — per il timore che vengano aggrediti o rapiti dagli uomini dei clan famigliari più violenti. Di conseguenza, il ministero ha deciso che tocchi agli insegnanti andarli a trovare nelle loro case. È ciò che io stesso faccio gratis con mia moglie, mia figlia e gli altri maestri. Con gli alunni non parliamo mai del fenomeno delle vendette. È una cosa mostruosa e non capirebbero». Non sorprende che sulle pareti nude dell’aula sia stato tracciato a lettere cubitali il messaggio che Pjetri ha impartito ai suoi 15 ragazzi perché lo trasmettano ai genitori, soffocati nell’indifferenza: «Sì alla vita, no alle vendette».

Messaggio che senti vibrare con intensità  in una casetta di Tropoja, un villaggio di montagna raggiungibile in sei ore di macchina lungo una strada tortuosissima, tutta sassi e curve. Ci attende Sokol, un vecchietto di 78 anni, alto e un po’ curvo, una matassa compatta di capelli bianchi, il pigiama a righe, il sorriso e la parola di chi non è vissuto invano.

«Mi uccisero il papà  quando avevo due anni e mezzo — racconta — , esperienza che ha ferito mortalmente la mia infanzia: ma, allo stesso tempo mi ha arricchito nello spirito ed ero ancora un adolescente quando maturai la decisione di impegnarmi nella lotta per fermare il ciclone delle vendette, diventando uno dei Mediatori. Un’altra grande sofferenza avrebbe però turbato la mia vita: quando ammazzarono mio figlio, una cosa atroce che mi è difficile perdonare nonostante l’impegno assunto nel processo di riconciliazione. Ma non poche famiglie mi hanno chiuso la porta in faccia. Grazie anche alla collaborazione del prete e dell’Imam, cioè di cattolici e musulmani, sono riuscito talvolta a combinare incontri tra famiglie dichiaratamente nemiche, a farle sedere allo stesso tavolo e a far loro mangiare il pane del perdono».

In quanto ad Enver Hoxha, il giudizio è netto e tagliente: «Durante il suo “regno” — sentenzia Sokol —, mentre il Kanun e la Bibbia venivano messi al bando, è stato l’unico dittatore a sopprimere la tradizione delle faide e delle vendette. Non ha fatto nient’altro di buono, che io sappia». Toccherà  agli storici intervenire sulla valutazione del suo mandato: ma il fatto che la salma sia stata rimossa dal cimitero degli eroi per essere risepolta in un comune camposanto stimola qualche suggerimento. A questo punto, Sokol mi mostra un ritratto con dedica di Madre Teresa di Calcutta con un sorriso d’orgoglio e venerazione, come volesse sottolineare che eroismo e santità  sono una merce molto rara.

Come poi il dio della vendetta abbia potuto abbattere in pieno giorno un uomo alieno alle faide quale il pastore evangelico di nome Tani, 34 anni, ce lo spiega la moglie Elona, trentenne, che incontriamo nella sede della Congregazione religiosa del defunto sposo: «Tre anni fa — racconta — lo zio di mio marito uccise un uomo e da quel momento tutti i suoi parenti — 24 uomini — e i bambini maschi scomparvero dalla circolazione e si rifugiarono per 6 mesi in un luogo segreto. Tani era da tempo impegnato nella lotta contro le vendette del sangue, un movimento che aveva adottato come parola l’ordine Fjala e Krishtit, la parola di Cristo».

Tornato dall’Inghilterra dopo un paio di mesi (mentre aveva progettato di trascorrervi tre anni) Tani decise di uscire allo scoperto per continuare la sua battaglia contro le vendette del sangue, che per il governo albanese «non esistevano». «Quella mattina — prosegue la vedova — era uscito dal locale della Congregazione per andare a prendere a scuola in macchina i nostri bambini. Lo ammazzarono nel centro di Scutari».

Quanto segue ha un risvolto meno brutale. «Tani — ha poi rivelato Elona — aveva parlato con suo fratello, al quale aveva detto testualmente: “Se mi uccidono, non voglio che mi vendichiate. È chiaro?”. E tre giorni dopo il delitto, il fratello mantenne la promessa e dichiarò solennemente che non l’avrebbe vendicato. All’assassino vennero inflitti 16 anni di detenzione, ma la gente tiene ancora nel cuore il messaggio del mio sposo, che li incita a desistere dalla vendetta».

Sfuggono ad ogni verifica i dati e la quantità  dei nuclei famigliari tuttora coinvolti nelle faide di sangue, che in Albania sarebbero più di 3 mila, mentre Alexander Kola riduce il totale a 1.400. A Scutari, secondo la valutazione di Simone, che presiede la casa-famiglia della comunità  Papa Giovanni XXIII, sono circa una sessantina le famiglie su cui gravano tuttora le minacce di vendetta, anche se per il sindaco della città  «è un problema di cui non si deve parlare perché non esiste».

Per Luigi Mila — segretario generale della Commissione di Giustizia e Pace albanese — «le faide di sangue sono un fenomeno tipico delle società  in cui la legge non è abbastanza forte e pertanto la famiglia e i rapporti tra parenti costituiscono la fonte principale dell’autorità ». Due, secondo lui, potrebbero essere le soluzioni: la prima, a lungo termine, informando dettagliatamente la popolazione sulla vastità  e complessità  del problema; la seconda, a breve scadenza, con l’arresto e la punizione immediata delle persone responsabili di questo genere di crimini. «Si tratta di un fenomeno — precisa Mila — che affonda le proprie radici in tempi remoti, fino a duemila anni fa, come risulta da documenti storici, quale il codice di Lek Dukagjin».

Atterrito dalla totale incompetenza sull’argomento storico-scientifico, trovo rifugio nell’abitazione di una gentile signora che finisce per raccontarmi la sua storia: per la verità  del tutto simile alle tante che ho raccolto nel mio breve pellegrinaggio sulle montagne albanesi.

Il suocero messo in galera per quattro mesi che se ne esce dopo quattro anni; il fratello del marito che uccide l’uomo che lo ha denunciato; il marito che non esce più di casa per paura d’essere ammazzato; lei che ogni giorno deve accompagnare i figli a scuola, di dodici e sette anni, altrimenti proprio non ci vanno.

Ed ecco infine l’ultimo lamento per la donna albanese, considerata dal sacro codice «come qualcosa di superfluo in famiglia», che se ne sta quasi sempre chiusa in casa anche se il Kanun non glielo impone e, deprivata com’è di qualsiasi diritto, a differenza del più miserabile dei maschi, non è neanche degna del martirio.


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