Il primo anniversario senza Osama ma Al Qaeda è sconfitta da tempo

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Che n’è di Al Qaeda un decennio dopo l’11 settembre, quello che si chiude con l’eliminazione del suo leader fondatore? Nel suo messaggio alla nazione, nella prima commemorazione dell’anniversario dopo la morte di Bin Laden, Obama ha detto che oggi l’America è più forte e Al Qaeda va verso la sconfitta. Affermazione realistica; ma il tracollo dell’organizzazione è dipesa non solo dalla continuazione, sotto altre forme, della “guerra al terrore” praticata dalla seconda amministrazione Bush e da Obama. Al Qaeda è stata sconfitta, prima ancora che da informatori, droni e Navy Seals, dalla sua stessa linea politica.
Bin Laden e Zawahiri hanno preferito la lotta al “nemico lontano”, l’America, a quella contro il “nemico vicino”, i regimi autocratici della Mezzaluna ma la reazione americana ha portato la guerra dentro al mondo islamico. Allo stesso tempo gli “effetti collaterali” sui musulmani causati dalle operazioni militari delle filiali locali qaediste contro gli americani, hanno prodotto la perdita del sostegno delle popolazioni stretta da una dura tenaglia. Il caso iracheno è eclatante: con il suo stragismo di massa Zarkawi ha prodotto enormi danni al qaedismo ma, nonostante i continui richiami di Zawahiri al comandante del terrore in Mesopotamia, l’organizzazione di Bin Laden non poteva che cooptarlo. Nei difficili anni seguiti all’invasione dell’Afganistan, infatti, il fronte iracheno dava respiro al gruppo storico. L’invasione ha prima distolto forze Usa dall’Hindu Kush e convogliato una nuova generazione jihadista nel cuore del Medioriente, poi gettato nel pantano le truppe di Washington. Al contempo la vicenda irachena ha segnato il proliferare di una struttura a rete che combatteva e perseguiva obiettivi in larga autonomia. La leadership storica si limitava a concedere in uso un marchio, dall’enorme valore aggiunto, a gruppi che si riconoscevano nella medesima ideologia e conducevano operazioni più o meno eclatanti. Uno scambio politico che ha consentito a Bin Laden e Zawahiri di sopravvivere, minandone però, al contempo, autorità  e presa su terminali regionali. Oggi quello più forte e riottoso è quello della Penisola arabica, spesso in disaccordo con la linea del jihad globale della casa madre. Dall’intreccio di questi fattori è derivata anche una diaspora silenziosa che, progressivamente, ha svuotato le fila di un’organizzazione che il 12 settembre 2001 pareva invincibile.
La morte di Bin Laden ha reso evidente, anche simbolicamente, la fine di un ciclo indebolito dall’impraticabilità  di un bipolarismo georeligioso fondato sulle categorie del Politico Occidente-Nuovo Califfato; ma il progetto strategico di Al Qaeda è andato in crisi prima del blitz di Abbottabad. Innestato su una sorta di “leninismo religioso” fondato sulla logica azione-repressione-insurrezione popolare, quel progetto è affondato quando i cosiddetti “regimi empi”, i poteri autocratici che avevano costretto alla resa le diverse esperienze del jihad nazionale dalle cui ceneri era nata la stessa Al Qaeda, sono stati rovesciati da attori diversi dai qaedisti. Crollava così la residua legittimità  dei qaedisti, fondata sul mito politico dell’essere loro i soli a opporsi, con mezzi condivisibili o meno, alle autocrazie al potere.
Crisi rivelata da due ulteriori paradossi nel campo islamista. Nelle transizioni innescate dalle rivolte arabe giocano oggi un ruolo rilevante formazioni di filiera come i Fratelli Musulmani, dalla cui diaspora nacque polemicamente, oltre trent’anni fa, lo jihadismo; ma anche gruppi di ex-jihadisti che a un certo punto della loro biografia politica hanno rotto con Zawahiri e Bin Laden. Al Qaeda rimane, dunque, pericolosa in termini di sicurezza ma non ha più appeal. Sotto le macerie del decennio è rimasta anche la sua ideologia combattente a oltranza.


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