L’eresia del rifiuto della guerra che non piace all’establishment

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Gli anni sessanta furono quelli delle guerre di indipendenza nazionale, ci fu un periodo in cui ci si occupò più delle guerre di indipendenza nazionale che della pace. L’idea della coesistenza pacifica, era ancora strettamente legata all’accordo tra le due grandi potenze – Stati Uniti e Unione Sovietica – un’idea che lasciava il mondo congelato, sacrificando i movimenti di liberazione. Questi sono gli antecedenti: pace sì, quindi, ma per i popoli che hanno il diritto di pretendere la propria indipenza nazionale.
Il problema della pace e della guerra si riaffaccia soltanto agli inizi degli anni ’80 con il progetto di installare gli «euromissili» nella base di Comiso. L’Italia si era sempre sentita un zona periferica, i missili venivano impiantati alla frontiera tra est ed ovest, per gli italiani quella era la guerra, quello era il fronte. Ma con l’installazione dei missili in Sicilia, tutto cambiò.
Comiso era un’altra guerra, Comiso era il sud. Questo è il nodo, è ora che nasce il pacifismo italiano, quando si scopre che c’è un nuovo fronte, quello nord-sud. La linea del fuoco est-ovest si carica di una dimensione nuova, quella della guerra contro i popoli del sud del mondo che, ottenuta l’indipendenza formale, si devono preparare a un conflitto per il controllo delle materie prime, del petrolio e del Mediterraneo, punto strategico del nuovo conflitto.
La prima volta che i pacifisti italiani cercarono di fare i picchetti per bloccare i camion che portavano i materiali per la costruzione della nuova base, cercarono di mettere in pratica quella «resistenza passiva» appresa dai filmati e dai reportage che venivano dall’Inghilterra e dal nord dell’Europa. Si sdraiarono per terra, mantenendo negli occhi le immagini apprese da quei documentari, dove la polizia inglese caricava i manifestanti afferrandoli per le braccia e per le gambe. I pacifisti avevano visto e imparato questo, i poliziotti italiani no, e quindi usarono manganelli e calci dei fucili: un massacro, e fu solo il primo.
Sedersi per terra, la nonviolenza, la protesta dura ma senza attaccare: a Perugia tutto questo trovò terreno fertile, si innescò una consonanza immediata. L’Umbria è la terra degli eretici, santi ma eretici, da San Francesco in poi. Nel nostro mondo funziona così: c’è sempre una grande causa vissuta in modo eretico e combattuta dall’establishment, e il movimento pacifista fu combattuto. Ebbe l’appoggio dai partiti di sinistra, ma non fu mai del tutto consonante perché c’era e si voleva mantenere un elemento di eresia, la volontà  di disarmo unilaterale, l’idea di «un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali», la ricerca di «altre vie» per risolvere il dissenso, abbattere l’idea incancrenita per la quale ci dovessero sempre essere negoziati per poi stabilire con il bilancino quanti missili potesse possedere l’Unione Sovietica e quanti gli Stati Uniti, «allora riduco, ne tengo solo 10 a mezza gittata» e poi «quanti sono quelli a lunga gittata intercontinentali?», questo tremendo stallo durato decenni e che si inceppava per poi riprendersi, e per poi bloccarsi nuovamente.
Si era cercato di stabilire un contatto con i dissidenti dell’Est, che chiedevano e volevano democrazia senza passare per l’aggressione militare, si voleva stabilire con loro una strategia perché la democrazia è possibile solo se si elimina l’ossessione del rischio della guerra, perché questo ventesimo secolo non deve essere solo quello degli errori e degli orrori.
Alla fine il muro dell’est è crollato da solo, questa è la critica che viene mossa al movimento pacifista. Potrebbe essere, bisogna costruire strade e ponti, non muri. Ma quel muro è cascato male.
(a cura di Sara Nunzi)


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