Quegli ostaggi liberi dal rancore capaci di pietà  per i loro carcerieri

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Nell’inverno del 2007 Soffiantini ricevette un plico dal carcere di Ascoli Piceno. Quando aprì la busta, Soffiantini ci trovò dentro una ventina di fogli e un appello. «Mi aiuta a pubblicarle?». Il libro è un elegante rilegato dalla copertina blu, che riporta solo una scritta: Giuseppe Soffiantini pubblica alcune poesie di Giovanni Farina. Faceva impressione, vedere insieme il nome di vittima e aguzzino, e i tanti italiani che ricordavano quella vicenda così drammatica si fecero qualche domanda. Soffiantini, oggi come allora, trova risposte semplici. «Mi sembrava giusto dare una possibilità  a chi paga il suo errore con il carcere. Non sono Dio, non devo perdonare nessuno. Mi limito a non odiare».
Il perdono non c’entra nulla con queste storie di sequestrati che mostrano umanità  nei confronti di persone condannate per un crimine ignobile commesso nei loro confronti, per averle sottoposte a sofferenze ingiuste e disumane. Le cronache del passato sono piene di rapiti che perdonano i rapitori. Luigi Casalunga, ex ispettore di polizia e autore del saggio Anonima sequestri sarda, ne ha recuperati tanti, di ostaggi che uscivano smunti dagli anfratti di qualche grotta. E ricorda il loro sguardo vuoto davanti all’inevitabile domanda. Quelli rispondevano che sì, certo, perdonavano, e all’ispettore sembrava che mentre pronunciavano la frase fatidica avessero ancora gli occhi fissi sul buco dove erano stati sepolti per mesi, per anni, come se avessero paura di essere riportati indietro.
Fabrizio De André venne sequestrato nel 1979 con la compagna Dori Ghezzi tra le montagne di Pattada, 107 giorni di prigionia dura. I suoi rapitori chiamavano hotel Supramonte il luogo di prigionia, e nel 1981 il cantautore genovese compose una canzone con quel titolo. «Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile/ grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere/ e un invito all’hotel Supramonte dove ho visto la neve/ sul tuo corpo così dolce di fame così dolce di sete/ passerà  anche questa stazione senza far male/ passerà  questa pioggia sottile come passa il dolore».
A scandirne il testo c’è dentro la solitudine, il dolore fisico e lo scoramento che possono avvolgere chi vive quell’esperienza. È vero, De André perdonò pubblicamente, non certo a caldo, le persone arrestate per il suo sequestro. «Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai». Erano pastori, diseredati, l’unico con un lavoro fisso faceva il bidello nella scuola di Orune. Ma erano solo i suoi custodi, dei sottoproletari del crimine. Non perdonò mai i loro mandanti, che definì «persone economicamente agiate» anche in virtù dei soldi che gli avevano estorto.
Con certi gesti c’entra piuttosto il tempo che passa, e la voglia di non rimanere prigionieri di un ricordo crudele. Cristina Berardi ha voluto restringere il significato del necrologio dedicato al suo rapitore. Pietà  per lui, condannato a 28 anni per un ruolo marginale in quella vicenda. Rispetto e affetto per le sorelle del defunto, sue colleghe di insegnamento. Anche quelle poche righe di cordoglio hanno sollevato domande, dubbi, curiosità .
Come sempre è stato evocato il nome di una nota località  scandinava. Nel 1973 sessanta persone furono sequestrate in una banca di Stoccolma. Poco tempo dopo, una delle persone tenute in ostaggio si fidanzò con il capo della banda, assurto al rango di «Swedish Robin Hood». Da allora la sindrome di Stoccolma che in medicina definisce il particolare legame affettivo che si può talora instaurare tra carceriere e prigioniero, aleggia come un’ombra di Banco, velata di compatimento, su ogni vittima di sequestro che spenda parole di pietà  per i suoi aguzzini. Ci sono vicende nelle quali si può tranquillamente applicare questa diagnosi empirica. Da Patti Hearst, nipote del magnate della stampa William Hearst, che dopo il suo rilascio si unì al gruppo di presunti rivoluzionari che l’avevano rapita, fino a Natasha Kampush, la ragazza austriaca tenuta segregata per otto anni, che ha espresso rimpianto per il suo aguzzino dicendosi in lutto dopo aver appreso del suo suicidio.
Ma sono casi limite, ed è ingiusto liquidare alla voce sindrome di Stoccolma la generosità  di Soffiantini, la sensibilità  di De André, e infine il sobrio necrologio di Cristina Berardi. Quei gesti appartengono a un’altra storia, forse. Almeno è bello immaginarli così, come testimonianze di ferite ormai rimarginate, della vita che dopo tanta sofferenza va comunque avanti. E impone di restare umani, anche nei confronti di chi non lo è stato con te.
Marco Imarisio


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