Da Ricucci a Tarantini quello che con il bavaglio non avremmo mai saputo

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ROMA – Ha sempre avuto due obiettivi la legge Alfano sulle intercettazioni. Sin da quando è stata presentata in consiglio dei ministri, era il giugno del 2008, governo Berlusconi fresco di un mese. Complicare, fino ad ostacolarla, la vita dei pm nel permettersi la registrazione di una telefonata per avere la prova di un reato, ridurre di fatto il numero delle conversazioni sotto controllo con la scusa che “costano troppo”. Vietare del tutto la possibilità  di pubblicare le intercettazioni comunque sopravvissute sui giornali.
Berlusconi avrebbe voluto una legge monstre, intercettazioni «solo per reati di mafia e di terrorismo», niente corruzione, nessun reato punito fino a dieci anni, il doppio del limite attuale. Il progetto iniziale non è passato, gli indizi sono rimasti «gravi» (li si volevano «evidenti»), ma resta una legge che costringerà  i pm a chiedere proroghe ogni 15 giorni, dimostrando ogni volta che c’è un’effettiva necessità  di tenere le microspie aperte. Egli dovrà  rivolgersi a un collegio di tre giudici, che ha sede solo nel capoluogo del distretto, per ottenere gli ascolti. Sarà  un’odissea.
Quanto ai giornali il bavaglio è assicurato. Pieno e totale. Ascolti blindati. Nessuna intercettazione potrà  mai essere pubblicata, né integrale, né tantomeno per riassunto o nel contenuto. Un buco nero fino al processo. Tutte le clamorose telefonate uscite in questi anni, dai «furbetti del quartierino» (lo diceva Stefano Ricucci nel 2005 nel pieno della scalata ad Antonveneta), per finire «alla patonza deve girare» detto da Berlusconi a Tarantini nell’estate 2008, tutto dovrà  restare chiuso nel fascicolo del pm. Anche se queste telefonate saranno contenute nelle ordinanze di custodia cautelare, quindi conosciute dagli avvocati, non potranno in nessuna forma essere raccontate sui giornali. Sarà  censura. Non c’è altro nome possibile per definire le conseguenze della futura legge.


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