MORTE DI UN RIFORMATORE

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La morte di Muammar suscita orrore e pietà  ma nel frattempo sono morti tanti Ahmed, Ibrahim e Mustafa e altrettanti Mustafa, Ibrahim e Ahmed, pur avendo avuto modo in passato di identificarsi in Muammar o di ricevere benefici dal suo regime come singoli o come membri della collettività , hanno sofferto troppo, hanno perso un padre o un fratello nella repressione o più semplicemente hanno avvertito all’improvviso il peso non più sopportabile della mancanza di libertà . Il popolo sa essere spietato ma il popolo – a differenza dei dirigenti, mossi per lo più dall’opportunismo o dalla vendetta personale – è il parametro infallibile di successi e insuccessi. Nella violenza contro un essere inanimato in quelle scene terribili di Sirte riaffiora quella medesima voglia di riappropriarsi del corpo del rais, poco importa se amato o odiato, che nel giorno del funerale al Cairo, in un trionfo invece che nell’obbrobrio, concluse la vicenda terrena di Nasser, il modello che Gheddafi ha cercato di emulare. È così che Muammar Gheddafi ha perso, dopo il fascino, il potere e la vita.
In tutto l’arco del suo governo Gheddafi ha condotto due lotte, distinte e sovrapposte, verso i suoi stessi connazionali e contro le forze esterne percepite come un ostacolo alla realizzazione della Libia che aveva in mente. All’interno, non è mai riuscito a conquistare il consenso necessario per rendere accettabili e in fondo comprensibili i suoi obiettivi. Fosse anche solo per questo, Gheddafi non è mai diventato un rivoluzionario. Ha precorso i tempi e gli sviluppi, non ha interpretato una classe, un’idea attuale o una nazione già  formata. Si è cimentato in un’impresa impossibile proiettata nel futuro o nell’immaginario come una specie di auto-elite: lo stesso limite dello scià  Reza Pahlevi, che voleva fare dell’Iran la terza potenza mondiale. Il risultato non poteva che essere un fallimento. Sull’altro fronte, le sfide lanciate all’imperialismo vecchio e nuovo lo hanno logorato in una partita a somma zero: i suoi interlocutori hanno finto di stare al gioco chiedendogli contropartite tutt’altro che liberatorie. Siccome Gheddafi era un riformatore (la nazionalizzazione degli idrocarburi, la chiusura delle basi, il mutamento dei rapporti fra Nord e Sud con mezzi leciti e illeciti) e non un semplice riformista, non è mai stato perdonato e accettato. Il paese assente e passivo che Gheddafi raccolse dopo il pallido regno di Idris possedeva virtualmente tutti i requisiti di cui il giovane capo degli «ufficiali liberi» si valse per la sua politica – il petrolio, lo spazio, la posizione strategica, ecc. – e in pochi anni trasformò la Libia conferendole dal nulla un ruolo e una visibilità  di alto profilo, forse sproporzionati, che gli meritarono in Occidente un’ostilità  a sua volta eccessiva date le possibilità  reali della Libia, tanto più perché isolata.
Sopravvissuto a una lunga sequenza di sanzioni, complotti e raids, nella sua tenda di Tripoli o nel cielo di Ustica, Gheddafi non si è mai trovato faccia a faccia con il nemico a cui era stato assegnato il compito di eliminarlo. Non ci sarà  nessuna icona paragonabile al corpo del Che freddato cinicamente dai militari boliviani a nome di un potere vicino e lontano. Gheddafi non è stato colpito neppure dalle bombe riversate sul suo bunker per giorni e settimane dalle potenze della Nato.
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Potrebbe essere stato però un aereo o un drone della coalizione intervenuta, come si sa, a difendere i civili, a far partire la bomba o il missile fatale, lasciando ai libici intontiti dalla vittoria ormai prossima – in un’ultima, perversa rivalutazione della Jamahiriya, la repubblica delle masse – l’onore o l’onere di macchiarsi dell’ultima ignominia. In questo la morte di Gheddafi ricorda piuttosto la morte di Patrice Lumumba, assassinato da una squadra di sicari in cui figuravano, con tutti i mimetismi del caso, i suoi nemici interni e un ufficiale belga. Nel 2011 come nel 1961 l’Onu ha svolto la parte vile di chi c’è ma guarda da un’altra parte. Il «pazzo di Tripoli» ha resistito a quattro presidenti americani: Reagan, Clinton e i due Bush. È caduto vittima del più «terzomondiale» dei presidenti americani così come il cadavere martoriato di Lumumba fu uno dei primi assilli del neo-presidente Kennedy, liberale e anticolonialista. Dopo aver seguito con tanta passione l’assassinio in diretta di Osama Bin Laden, pare che Hillary Cliton abbia avuto un’altra scossa leggendo sul suo blackberry la notizia della morte di Gheddafi: ha qualche motivo per essere fiera essendo stata probabilmente lei a decidere a Washington la partecipazione alla guerra o a far decidere Obama.
I capi degli stati che hanno condotto la guerra contro Gheddafi, almeno quelli europei, avevano tutti alle spalle una più o meno lunga frequentazione del leader della rivoluzione libica. Con un atto di contrizione non richiesto Gheddafi nel 2003 aveva chiesto e ottenuto di rientrare nella legalità  perché non voleva essere l’Iraq del Nord Africa anche se paradossalmente non è sfuggito allo stesso destino di Saddam Hussein, massacro dei figli compreso. Il «bel giorno» vissuto dalla Libia secondo Sarkozy e i suoi complici con l’uccisione di Muammar Gheddafi contrasta con i giorni «bui» quando Gheddafi era ospite dell’Eliseo (la prima visita ufficiale della Guida in un paese occidentale) o era abbracciato da Blair arrivato fino a Tripoli e naturalmente riceveva gli omaggi di Berlusconi (così come, prima di lui, di Andreotti, Dini e D’Alema). Buon vicinato e Realpolitik in diplomazia non sono neppure disdicevoli in sé. Molto peggio la retorica dell’aiuto promesso per contribuire a costruire la nuova Libia, tutta democrazia e concessioni petrolifere con l’aggiunta di qualche base militare per tenere a bada un’area che sta conoscendo un’evoluzione tumultuosa. Il ministro Frattini vuole dedicarsi in particolare a rifare le scuole. Tutti hanno le certezze che derivano dai precedenti di Iraq e Afghanistan.


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