UOMINI E DONNE CHE CI HANNO FATTO SCOPRIRE IL MONDO

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Ci sono libri in cui splendidamente ci si perde, anziché ritrovarsi. Labirinti, polverosi portolani, oceani di cose e di nomi, irti di scogliere e cime tempestose. Il Dizionario amoroso degli esploratori di Michel Le Bris, barbuto baleniere nell’anima, navigatore indomito di spazi illimitati, editore, scrittore e “patron” dei viaggiatori armati di penna di mezzo mondo, è uno di questi oggetti favolosi, che non possono mancare nella biblioteca di chi salpa per mari proibiti. Le Bris il bretone, marchiato dalla sua terra favolosa fin nel nome bisillabo tranchant come il bompresso di un brigantino, ha scritto un tomo di mille pagine che non è un Baedeker ma semplicemente la riproduzione della sua soffitta di Morlaix, quella dove si rifugiava dopo aver visto partire le grandi navi dai ventosi faraglioni del Nordovest, per squadernare al riparo dalla pioggia vecchi diari di viaggio illustrati, in quel pendolarismo talmudico fra il “fuori” e il “dentro”, la tana e gli spazi aperti, che sta alla base del sogno.
“Il fuori guarisce” dice Nicolas Bouvier, di cui Le Bris è stato editore e amico profondo, Bouvier autore di uno dei massimi libri di viaggio del ventesimo secolo, La polvere del mondo. Ma il “dentro” è l’altro polo del vivere dove il battito del cuore diventa febbrile, l’alambicco dove le folgorazioni del mondo esterno diventano scrittura attraverso la “doppia distillazione” del tempo, la fabbrica dove una folla di libri si agita e si sporge dagli scaffali, si impossessa di te indicandoti altri punti cardinali. I libri ti possiedono, talvolta ti minacciano, e non importa che siano scritti da filibustieri o acchiappanuvole, se sono serviti a costruire il tuo immaginario. E difatti l’atto più doloroso di chi parte non è il distacco dagli affetti, ma l’abbandono del Libro, il padre che ti ha indicato la strada. Deve essere un saluto pieno di cautele, scrive Michel, perché “non si sa mai di quali vendette siano capaci i libri”.
Attraverso la sfolgorante traduzione di Vera Verdiani che, lavorando sul polacco, ci ha già  reso conoscibile Kapuscinski, entri in un percorso che non ha nulla di sistematico, in una soffitta dell’infanzia dove trovi il Passaggio a Nordovest ma anche la favolosa terra di Thule, la mappa della Patagonia e quella dell’Isola del Tesoro, Fridtjof Nansen monumento dell’esplorazione polare e un emerito bugiardo come Daniel Defoe, autore di un libro sul Madagascar nel quale non aveva mai messo piede. In questo spazio dei libri “amati” (da qui il magnifico titolo) lo Stretto di Magellano sta sullo stesso scaffale del regno perduto di Oz e del favoloso El Dorado. E attorno a te si affollano razziatori di antichità  e atletici vincitori dell’impossibile, eccentriche ribelli vittoriane e imperturbabili originali come James Bruce, le cui avventure parvero così folli (eppur vere, tanto che fu riabilitato un secolo dopo) da ispirare la presa in giro de Il Barone di Mà¼nchausen di Rudolf Erich Raspe.
A Carl Ethan Clarence Akeley, l’ineguagliabile impagliatore di elefanti-giganti poi diventato protettore degli ultimi gorilla, viene così dedicato più spazio che a Roald Amundsen, il conquistatore del Polo Sud. I viaggi, come i libri, son fatti per ribaltare i luoghi comuni ed ecco che accanto a Marco Polo sbuca Rabban Sauma, un monaco cristiano cinese che negli stessi anni viaggia fino a Roma e oltre con una missiva del Khan per il Papa. Accanto alla “nostra” scoperta dell’America, Le Bris ci svela il suo contrario, la scoperta del Mondo Antico da parte dei pellirosse che nel 1509 attraversano l’Atlantico in canotto solo per vedere da dove viene l’uomo bianco. “Nihil ultra”, di là  non c’è nulla, aveva inciso Ercole sulle colonne, ma l’Autore dissente, al punto di proclamare come incipit: “Di là  c’è qualcosa”. Anzi, di là  c’è “sempre” qualcosa. Basta uscire di casa.
Il viaggiatore non rumina se stesso, non fa psicanalisi, nè si cala nell’inconscio buio come un sommozzatore, ma lo sputa, lo espelle attraverso il cammino, il battito del cuore e il respiro, per leggerlo alla luce dei paesaggi e degli incontri con gli uomini e gli animali del creato. Lo fa per poi scoprire che quel doppio di sé è semplicemente l’Altro che lo abita, il segno che noi “non siamo di qui”, ma veniamo da altrove. E’ questa patria perduta che ci fa viaggiare, è questa terra ignota e inconoscibile “che ci manca e ci strazia l’anima”. Giganti come Ernest Henry Shackleton, esploratore polare che diede il meglio di sé proprio nei rovesci e nei fallimenti, o Alvar Nunez detto Cabeza de Vaca scopritore di mezzo Nordamerica e uno dei massimi camminatori di tutti i tempi, non cercavano solo un luogo, ma – insiste Le Bris – perseguivano tenacemente “la fiamma chiusa nel più segreto recesso del loro essere, il luogo misterioso dove le bussole impazziscono e ti spronano oltre l’orizzonte”.
Il grave di questo dizionario è che vi farà  correre alla ricerca di altri libri, perché leggendolo vi direte: non è possibile che non abbia sentito parlare di Lady Hester Lucy Stanhope, regina di Tadmor, maga, profetessa e matriarca che incantò il mondo arabo e poi finì la sua vita dimenticata in un palazzo in rovina del Libano. Non è possibile che non sappia di Bernardino Drovetti, saccheggiatore su scala industriale di antichità  egizie, spietato capobanda che seppe vendere ai regnanti d’Europa le collezioni berlinesi, del Louvre e del museo di Torino. E poi le mappe, che non servono affatto a viaggiare nella realtà . Che diavolo, cosa miserabile è orientarsi. Il bello è perdersi, e solo le carte vere lo fanno, evocando l’Altrove.


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