FRA MANETTE E MONETINE FINàŒ LA PRIMA REPUBBLICA

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E De Mita si mise a giocare con i soldatini sulla scrivania di Cossiga. E Occhetto sconvolto trangugiò un whisky. E Andreotti incontrò un enorme topo malaugurante nei corridoi del Senato. E Craxi fece le corna a Martelli, l’unico che poteva aprire il frigorifero di casa. E il cardinal Martini sventolò in faccia a Forlani la terribile parabola del fico che non dà  frutti. E De Michelis a un certo punto lo stavano per buttare in un canale al grido di «onto! onto!», ossia unto. E tanti altri li arrestavano «a carrettate»”.
E durante l’interrogatorio Di Pietro, che in carcere chiamavano La Madonna, si slacciò il cinturino e per scommessa consegnò il suo orologio a Ligresti – ma il Rolex era falso. E verso la fine, che poi non è mai la fine, il professor Urbani si mise a girare con certi fascicoli, numeri, progetti liberali di “Buongoverno” e l’Avvocato Agnelli disse all’Ingegnere De Benedetti: «Io non sapevo come sbarazzarmene e l’ho spedito da quel matto di Berlusconi…».
Assistere al crollo di un regime è forse l’unico privilegio per cui valga davvero la pena di fare il giornalista politico così riscattando anni di noia, chiacchiere, elucubrazioni. Lo si dice qui senza ipocrisie: la caduta degli dei fu uno spettacolo bellissimo, anche perché assai istruttivo. Ma riviverlo sulle pagine di questa Eutanasia di un potere (Laterza, pagg. 327, euro 18) lo fa capire assai meglio. Marco Damilano, classe 1968, era a quei tempi poco più che ventenne, aspirante giornalista. Ma proprio il fatto che non fosse su piazza deve averlo spinto a gettarsi con tanta più meticolosa energia nel vissuto di quella stagione pazzesca, ricostruendone l’esito attraverso presagi, risonanze, bagliori, riscoprendo con equilibrato entusiasmo il ruolo che nella società  giocarono Il Portaborse di Luchetti-Moretti, o Povera Patria di Battiato, il Tango rosa e il Cuore verdolino di Serra, i referendum di Segni, l’ardore barbarico della Lega, la Rete di Orlando, le tele-piazze di Lerner e Santoro, la mortadella di Funari, i tg della Fininvest.
Niente ideologia, troppe emozioni. La canotta fradicia di Bettino, il loden che impedì la fuga di Salvo Lima durante l’agguato, la velina di Vittorio Orefice, testimone prima scettico e poi sgomento di un passaggio che minaccia, confonde, distorce e infine annichilisce il Palazzo. La lucida follia preveggente del Picconatore. I partiti che cambiano nome. La «Cosa» dell’ex Pci, nata male e cresciuta peggio. Il Ppi di Martinazzoli: «Dio si è voltato da un’altra parte». I deputati espulsi dai ristoranti, l’assedio di Montecitorio, il «catafalco» in aula per garantire il segreto del voto per il Quirinale, fino al “botto” di Falcone.
Sono vent’anni dall’arresto di Mario Chiesa, un tempo sufficiente per richiamare all’ordine i ricordi. Ma il caso ha voluto che la prima vera opera sulla fine della Prima Repubblica esca proprio quando volge al termine la Seconda – e la crisi economica si appresta a spazzare via ciò che rimane dei partiti. Ora, il fatto che fin dal 1991, a Cernobbio, il professor Monti avesse messo in guardia la classe politica sulle condizioni dell’economia italiana lascia sconfortati. Ma l’impressione è che quella storia lì sarebbe comunque finita. Sono i modi, semmai, «fra istinto di conservazione e oscura volontà  di annientamento», come scrisse Edmondo Berselli, che ancora colpiscono, fermo restando che quel sistema di potere era terminato assai prima di quanto si ricordi.
E comunque Mani pulite arrivò dopo, con i dovuti protagonismi dei giudici, e gli arresti, le gogne, la galera, i dimagrimenti, i tumori, i suicidi, le vittime sacrificali, anche quelle innocenti, come il povero Goria. Allo stesso modo solo adesso si capisce che il beneficiario di quella selvaggia Norimberga fu proprio Berlusconi con le sue tv – e basti qui ricordare la scena di Paolo Brosio, cronista giudiziario del Tg4, che piange in diretta quando Di Pietro abbandona la toga, e Fede fa la scena di rimproverarlo.
Ma tutto, la tragedia di una classe dirigente, il tramonto di un universo di passioni, la fine delle culture politiche, degli insediamenti sociali, dei radicamenti geografici, il disastro e la chiusura di tanti gloriosi partiti, tutto insomma avviene in un modo che nell’Italia ancora fresca di bunga bunga non si fatica a definire epocale, all’altezza di un dramma autentico, di quelli che si dovrebbero tramandare come lezione da una generazione all’altra – ma che in Italia, evidentemente, si è fraintesa e dimenticata. 
Damilano, che ha fatto un grande lavoro sulle fonti scritte, registra anche i ricordi di alcuni protagonisti e testimoni: Giulio Anselmi racconta il Corriere; Carlo Freccero la tv; l’ex ministro Gianni Fontana le sue peripezie che lo portarono a trovare rifugio in un monastero irlandese; Carra e Tabacci narrano il loro sconforto di imputati e di democristiani; Di Pietro tenta un bilancio, invero piuttosto amaro. La memoria più vivace è quella di Carlo De Benedetti che in un impulso archeologico descrive il salotto di casa Andreotti: «Mesto, con le foderine bianche appoggiate al divano per non sporcare con la brillantina dei capelli il tessuto, cose da Ottocento»; e racconta di quando per curiosità  volle incontrare Bossi: «Gli chiesi: “Voglio sapere da lei una sola cosa, lei dove lo mette il debito pubblico?”. Lui mi rispose: “A Roma”. Allora capii che non valeva più la pena di parlargli».
A farla breve, trascurando cioè la dimensione geopolitica e senza abbandonarsi ad accessi misteriologici, la Prima Repubblica se ne andò in pezzi tra sciacquoni e pallottole, referendum e monetine, bombe, manette e talk-show perché era ormai tecnicamente obsoleta, perché gli uomini dell’economia non ne potevano più e perché i potenti alleati di quel tempo, Craxi, Andreotti e Forlani, erano già  ben cotti a puntino, ombre di se stessi, e oltretutto si detestavano.
A farla lunga, invece, dall’Iliade in poi, l’eutanasia o l’abdicazione di un potere si spiega con quell’antica, semplice e arcana sentenza inesorabile per cui Dio acceca coloro che vuole perdere; specie se i malcapitati si ritengono invincibili, e invece non sono altro che fumo e polvere, e al massimo locandine in bianco e nero nel gran teatro della storia e del suo sgangherato immaginario.


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