Miriam Mafai Dalla politica al giornalismo La vita ad occhi aperti della ragazza rossa

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È morta ieri nella sua casa di Roma Miriam Mafai, giornalista e scrittrice. Aveva 86 anni. Chi ne abbia seguito nel tempo gli scritti sull’attualità  politica, e in particolare abbia scorso giorno per giorno i suoi interventi sulla Repubblica potrà  cogliere nell’evento un senso particolare: quasi suggerisca, a suo modo, un mutamento d’epoca. A Miriam in verità , come a pochi altri nostri colleghi, la qualifica di giornalista andava stretta: la sua testimonianza poteva assumere i toni più alti e coinvolgenti. Se ne erano accorti i moderatori dei talk-show televisivi, che da tempo la convocavano sapendola capace di cavare dai fatti una sostanza inedita. La sua lunga anagrafe aveva saputo evolversi in un’esperienza non convenzionale. I suoi sorrisi privi di sarcasmo riuscivano talvolta a liberare la cronaca dalle sue ombre.
Senza mai atteggiarsi a personaggio, la giornalista nostra amica ha saputo raccontarsi con generosità , mescolando vita e lavoro, imparando a far sfociare, dall’interno di entrambi, entusiasmi, sussulti, angosce e letizie sornione. «Ho visto i massacri di Sabra e Chatila», ha raccontato nel volume La mia professione curato per Laterza, nel 1986, da Corrado Stajano. «Ho visto la strage di via Fani e quella della stazione di Bologna, il cadavere di Moro e quello di Sindona». Ancora poche settimane fa, «in limine mortis», Miriam restava convinta, parlandone con qualche amico, che «il mestiere vero s’impara in cronaca»: a partire dalla «buona cronaca nera», di cui vigeva il culto in una delle testate per lei più formative, il paracomunista Paese Sera. 
Nel saggio, appena citato, sul proprio lavoro si seguono d’altronde, molto da vicino le avventure e i traumi del cronista (della cronista, nel caso, ma non era nel suo stile fare distinzioni). Lui – lei – mandato in casa della «mondana assassinata», doveva «mettere il piede in mezzo alla porta» per infilarsi nella scena, e sfiorava la felicità  se s’impadroniva della foto d’una vittima. Per modestia, Miriam aggiunge che una simile vetta del mestiere era di rado riuscita a varcarla. «L’unico mio scoop fu quello di scoprire l’esistenza della moglie divorziata d’un politico che dirigeva la campagna contro il divorzio. Andai a casa sua e la intervistai. Ma non mi diede la fotografia del matrimonio». 
Furono difficili gli esordi del segugio di cronaca chiamato Miriam. Figlia di due artisti di larga fama, Mario Mafai ed Antonietta Raphaà«l, ebrea per metà  (sua madre, lituana, era figlia del rabbino di Kaunas), lei prende parte alla Resistenza: nemmeno ventenne, è staffetta partigiana nella capitale occupata. Comincia poi come funzionario del Pci in un Abruzzo ancora semidistrutto dalla guerra. È giovane, sposata da poco. Essendo a sua volta suo marito un funzionario del Pci addetto al lavoro internazionale, lo segue a Parigi nel 1957, con due bambini, Sara e Luciano, che intanto le sono nati. Maria Antonietta Macciocchi, conosciuta durante la Resistenza, la fa diventare corrispondente di Vie Nuove con un modico compenso «a borderò». Primo servizio: un resoconto della visita d’Elisabetta d’Inghilterra all’Eliseo. Articolo che a Macciocchi non piace: poche notizie. Ma rientra in quello stesso arco di tempo uno dei pochi lavori che Mafai non disdegni di rievocare quasi come uno scoop. Appena incrociato a un congresso del Psi un giovanotto che la colpisce per la sua disinvolta destrezza, scrive: «I dirigenti socialisti di domani saranno come questo giovane». Una profetessa? È arduo lesinarle la qualifica, poiché quello spigliato congressista si chiama Bettino Craxi. 
Nel ’58 Miriam è nella redazione romana dell’Unità . Lo stipendio è magro, la qualifica: impiegata. Nel ’61, è redattrice parlamentare. La vediamo in una di quelle scene che lei sapeva descrivere con ilare compunzione: «Ho un vestito grigio, un filo di perle al collo, un sorriso un po’ idiota sulle labbra e – orrore – i guanti». È in una sala del Quirinale. Le consegnano il premio Saint-Vincent per un servizio sul funzionamento – o le disfunzioni – della Camera dei deputati. 
E poi? Appartiene a una fase più recente il suo lavoro a Repubblica, svolto fin dai “numeri zero” del 1975-’76. Ed eccomi a cercare nella memoria i momenti in cui Miriam mi è parsa, scrivendo articoli o libri, al suo meglio. Ecco un servizio in cui ritrae il Natale del 1953 in casa sua, a Roma, lo si rilegge con il piacere che procura l’arguzia quando lotta con l’emozione. Gli ospiti di quella notte, ricordati nel pezzo, sono tali e tanti che sua figlia (ricorderà  l’autrice) le domanda: «È possibile, mamma, che non ci fosse neppure uno qualsiasi, in quella cena? Solo celebrità ?».
Quando accennava ai suoi figli, appunto, Miriam – giornalista politica, e di politica ammalata, compagna di vita per trent’anni di Giancarlo Pajetta, dal 1962 fino alla morte di lui, nel 1990 – inclinava a un tenero “mea culpa”. «Sono stata una madre frettolosa, assente, nervosa», si legge in un volume a più mani al quale collaborò nel 2002, Il silenzio dei comunisti. A un altro tipo di figli, quelli veri o metaforici dei dirigenti del Pci, la scrittrice aveva già  riservato sei anni prima una descrizione nel suo libro Botteghe Oscure addio!. 
Sono i primi mesi del ’68. C’è, nella sede del Pci, un’affollata riunione di studenti. Il responsabile del settore scuola, Alessandro Natta, ha appena terminata la sua relazione e dal palco della presidenza qualcuno dichiara: «La riunione è conclusa». «Un momento», esclama uno dei giovani. «Ciò che ha detto il compagno Natta non mi convince affatto». Si tratta, per chi ha pratica di quei rituali, di una prima volta. Quel sessantottino, cronista di se stesso e della propria generazione, ha messo davvero il piede nella porta. Lo mostra l’istantanea scattata da Miriam. «Dopo di allora non ci sono stati più doveri o impegni particolari per i figli del Pci». 
Il giornalismo di Mafai, il suo “metodo”, si prolunga insomma nei libri a sua firma. È la loro risorsa. Di un realismo ripulito da ogni lusinga letteraria trabocca Pane nero, dedicato alla dura vita delle donne abruzzesi durante la guerra. Se mi accade di pensare a Pietro Secchia – eroe politico un po’ ribaldo, un po’ penoso – lo rivedo come lei lo presentò nell’Uomo che sognava la lotta armata (1984): «Di media statura, una folta capigliatura nera, gli occhi allucinati dietro gli occhiali». Mi capita di leggere spesso qualche capitolo del Lungo freddo, la biografia dedicata da Miriam nel 1997 a Bruno Pontecorvo, e scritta con una partecipazione così naturale da non sfociare mai nel pathos, tingendosi piuttosto di “giallo”. 
Se prendo in mano Dimenticare Berlinguer (1992) mi soffermo sull’immagine di quel personaggio fissata in una foto d’epoca. Così l’autrice la ridipinge, quella foto: «Chiuso in una giacca a vento bianca, al timone di una barca a vela, il viso appena sollevato contro il vento che gli scompiglia i capelli. Un uomo sollevato da ogni preoccupazione, forse perfino felice». 
Sul presente e il futuro della sua professione non sempre Miriam si mostrava fiduciosa. A tratti, l’indipendenza dei giornali le appariva una chimera. La si sentiva esclamare: «Importante è vivere ad occhi aperti». Meno male che i suoi lo sono sempre stati.


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