i Tedeschi vanno bene? Guardando i Dati, No

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Visto il tradizionale ritardo nella pubblicazione delle statistiche sul Prodotto interno lordo (Pil), che è il dato più esaustivo dell’andamento economico, perché misura la produzione totale di beni e servizi e il reddito, questi indicatori forniscono una fotografia, se pur parziale, dell’attività  nella seconda parte dell’anno precedente.
I commenti hanno soprattutto posto l’attenzione sull’aumento dell’occupazione in Germania, interpretato come un segnale della ripresa, da contrapporre al rallentamento di Spagna e Italia. Si è parlato di un’Europa a due velocità  che non solo fa fatica a stare insieme, ma ha anche sempre meno interesse a starci. I dati sull’occupazione, tuttavia, non sono un buon indicatore dell’attività  economica; il loro rapporto con il Pil durante il ciclo varia a seconda delle regole della contrattazione aziendale e della legislazione su assunzioni e licenziamenti di un Paese. Occupazione e Pil non vanno sempre insieme e non sempre dicono la stessa cosa.
Se, invece che all’occupazione, guardiamo agli indicatori che tradizionalmente anticipano l’andamento del prodotto lordo, il quadro che ne emerge è quello di una Germania che, dal maggio del 2011, dopo la ripresa degli ultimi due anni, ha subito, come l’Italia, un forte rallentamento. Le previsioni basate su questi dati segnalano che il quarto trimestre mostrerà  probabilmente crescita negativa con i primi tre mesi del 2012 anch’essi negativi o intorno a zero. L’Europa, dalla primavera scorsa, ha interrotto la ripresa e subisce, tutta, la crisi di fiducia determinata dall’incertezza sulle sorti dell’euro (si veda il servizio di previsioni in tempo reale www.now-casting.com e il richiamo fatto sin da giugno su questo giornale). Anche l’Ocse, fino a un mese fa ottimista, a dicembre ha rivisto radicalmente verso il basso le sue previsioni per i Paesi europei. Attualmente si stima una crescita annuale in Germania per il 2012 inferiore al mezzo punto percentuale, ben al di sotto dei risultati del 2010 e del 2011.
Questo ci dice che i vantaggi di competitività  che la Germania ha ottenuto dalla svalutazione recente dell’euro, hanno avuto finora poco effetto sul prodotto lordo o che gli effetti positivi, se presenti, sono stati largamente compensati da quelli negativi innescati dall’austerità  fiscale e dalla crisi bancaria e sovrana. La Germania insomma condivide il destino economico dei suoi vicini e proprio per questo dovrebbe avere interesse a una soluzione comune della crisi, anche se questo implicasse per Berlino un costo nel breve periodo. I dati suggeriscono un messaggio che Monti dovrebbe usare al tavolo dei prossimi incontri europei.
Ma guardiamo ai numeri sull’occupazione. Com’è possibile che la produzione in Germania rallenti, ma che questo non abbia effetti sull’occupazione? Per l’occupazione tedesca sembrano essere irrilevanti i movimenti del Pil ed è così da più di un decennio. Anche quando il Pil cala, l’indicatore resta piatto. Su questo aspetto la Germania presenta un’anomalia che la distingue dagli Stati Uniti e anche dall’Italia. Dall’inizio della recessione del 2008 le imprese tedesche, invece di licenziare, hanno ridotto le ore lavorate per occupato. Dalla fine del 2007 alla fine del 2009, nonostante una perdita di Pil di oltre il 4%, il numero degli occupati è aumentato di quasi un punto percentuale, risultato reso possibile da una diminuzione di oltre il 2% delle ore lavorate per addetto. Un simile fenomeno si osserva anche durante la recessione dell’inizio del millennio. 
Negli Stati Uniti, al contrario, la diminuzione delle ore lavorate è spiegata in gran parte dalla diminuzione del numero degli occupati. L’Italia è un caso intermedio. Dalla fine del 2007 alla fine del 2009, a fronte di una diminuzione del tasso di crescita del Pil di circa il 6%, abbiamo visto una diminuzione della crescita delle ore del 5%, di cui più della metà  è spiegata dal calo dell’occupazione.
Questi dati rivelano che il patto tedesco tra imprese e sindacati è profondamente diverso dal nostro. Garantisce la sicurezza del lavoro in cambio di flessibilità  delle ore lavorate e in questo modo limita il flusso in uscita dal mondo degli occupati durante le fasi di rallentamento ciclico. 
È paradossale che in Italia, nonostante le tanto discusse regole sui licenziamenti, la dinamica dell’occupazione in rapporto al Pil sia più simile a quella degli Stati Uniti, Paese con un mercato del lavoro molto deregolato, che a quella della Germania. Come in realtà  emerge anche dagli indicatori Ocse sulla flessibilità  del lavoro, in Italia non sembra essere così difficile licenziare. Se lo fosse questo si rifletterebbe in una minore volatilità  ciclica dell’occupazione.
Quale modello sia migliore per la crescita futura dell’economia, quello tedesco o quello americano, è un tema di grande complessità . Il modello tedesco comporta dei costi. Per esempio una minore produttività  del lavoro in fasi recessive. Ma quando queste sono prolungate, il costo per la società  di una esclusione duratura di una parte della forza lavoro è alto perché comporta perdita di esperienza, di abilità  lavorativa e sfibramento della coesione sociale.


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