L’alchimia cangiante della razionalità  moderna

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Paolo Rossi ha insegnato per tutta la vita una materia che in Italia non esiste, vale a dire quella History of Ideas usuale nel mondo culturale angloamericano, ma in Italia costretta entro le maglie disciplinari inevitabilmente anguste della storia della filosofia e della scienza. Temi filosofici e scientifici erano ovviamente al centro degli studi di Rossi, ma era soprattutto il nesso tra quelli e il mondo della letteratura, delle ideologie, delle mentalità , che attirava il suo interesse.
Nato a Urbino nel 1923, aveva vissuto in realtà  infanzia e adolescenza a Città  di Castello (dove ha scelto di essere sepolto); la sua formazione di studioso si era mossa tra Firenze (Eugenio Garin) e Milano (Antonio Banfi), per poi approdare stabilmente a Firenze dalla metà  degli Anni Sessanta. 
Il suo fortunatissimo libro del 1957, tradotto in molte lingue, su Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, anticipava il nucleo fondante del suo filone di studi e anche la sua originalità . Dove è il sottotitolo che va tenuto presente, perché pur nella sua apparente asetticità  sintetizzava e anticipava la prospettiva che in maniera sempre più netta veniva assunta (e confermata anche nel suo secondo studio fondamentale del 1960: Clavis Universalis: arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz). 
In pratica e semplificando possiamo dire che il centro del suo interesse era la nascita del mondo moderno nei suoi aspetti di razionalità  scientifica faticosamente acquisiti. Un approccio non «continuista», rispetto al Garin degli studi rinascimentali e alla Yates degli studi su Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Oltre la genesi, certamente rinascimentale, impastata con tutto il mondo della magia, dell’alchimia, dell’esoterismo, della mistica e della teologia, nasce un pensiero che va oltre e diviene altro da tutto ciò che lo aveva preceduto, guadagnando nel tempo la sua autonomia sempre relativa e sempre insidiata. 
Osservato senza nessuna supponenza positivistica, era il decollo di una razionalità  laica a cui si poteva pervenire per molte vie, che non dimenticava mai il suo legame con il passato ma che si rendeva infine autonoma, non nel chiuso di laboratori ma in rapporto con la vita e i problemi del proprio tempo. Il libro del 1962 su I filosofi e le macchine 1400-1700, rendeva bene il senso di questa ricerca attenta alle intersezioni tra «saperi» e «discipline» oggi separati e che tali non erano nel passato anche a noi più prossimo. Esemplare si può considerare anche il suo libro di studi vichiani del 1969 (Le sterminate antichità ), dove in contrasto con una lunga e nobile tradizione della filosofia italiana riusciva a rendere bene quell’impasto originalissimo di cultura innegabilmente retriva e genialità  speculativa che è la cifra più appassionante del pensiero di Vico. Dieci anni dopo la riflessione su I segni del tempo: storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, completava e ampliava questa problematica ponendo al centro l’avventura intellettuale della «scoperta del tempo», il tempo «profondo», quell’«oscuro abisso» che si apriva una volta abbandonata la certezza biblica dei pochi millenni di storia dalla creazione.
Tra le opere dell’ultimo periodo era soprattutto Naufragi senza spettatore: l’idea di progresso, del 1995, che chiariva la sua distanza dal diffuso ciarpame neopositivistico in cui molti tuttora identificano la storia della scienza.
Poco presente tra i suoi scritti ma ricorrente nel suo insegnamento era il tema dell’illuminismo e della sua cultura, che era in fondo il mondo ideale a cui inevitabilmente la sua disposizione intellettuale in qualche modo rinviava. 
Chi ha avuto – come chi scrive – la fortuna di seguire alla fine degli anni Sessanta i suoi seminari su questi temi può testimoniare della sua grande personalità  di docente, della chiarezza senza banalizzazione che era propria del suo modo di discutere e interpretare. Senza enfasi, senza retorica, il suo insegnamento era un salutare contraltare al linguaggio iniziatico e oracolare di troppi filosofi di quel tempo.


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