UNA CATENA DI ERRORI E LEGGEREZZE

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Nel buio della notte la Costa Concordia sembra un gigantesco animale morente. La ciminiera ormai sfiora l’acqua, lo scafo è riverso su se stesso. Le pilotine dei soccorritori che la circondano sembrano insetti intorno a un mostro che incute ancora timore. Oltre l’oscurità  si vede anche dell’altro, in quella sagoma enorme. « Fa paura » dice un bambino che corre a casa per mano alla mamma, e ha ragione. Sono passate ventiquattro ore da quando la nave partita venerdì sera da Civitavecchia e diretta a Savona, prima tappa di una crociera nel Mediterraneo, si è arenata in questo angolo tra sabbia e scogli, il punto prediletto dei turisti del Giglio per le immersioni. E quel relitto sventrato da una ferita lunga settanta metri appare sempre più come un monumento alla nostra fragilità . All’errore e alla stupidità  umana che rendono vane ogni tecnologia, ogni sapere. Sono morte delle persone, e ancora non sappiamo quante, per un saluto, un comandante che decide di avvicinarsi alla costa per mostrare le luci dell’isola ai passeggeriAdesso a ogni quadrato corrisponde una scialuppa, ogni tratto di penna che cancella un nome è una vita salvata. « Questo c’è, questo non lo troviamo negli elenchi » . Il foglio steso sulla scrivania all’ingresso della capitaneria di porto è grande come un lenzuolo, una specie di collage ottenuto unendo gli elenchi delle persone a bordo, di quelle che sono sopravvissute, di quelle che non si trovano più. Ufficiali di marina e vigili del fuoco sono chini sul documento che tenta di tradurre in numeri questa giornata terribile. Un alto ufficiale di Marina solleva la testa. « Cristo santo » dice. Cala il silenzio. Ne mancano 52, tra equipaggio e passeggeri. No, sussurra qualcuno, forse i dispersi sono « solo » 34, ci sono 18 nomi che ricorrono più volte nel lenzuolo. La speranza in un bilancio più clemente si aggrappa solo a quelle ripetizioni, al caos delle liste e di soccorsi difficili, alla confusione che si mischia ad angoscia e speranza, come avviene a notte fonda, quando l’ultima pilotina dei Vigili del fuoco rientra in porto a velocità  folle. Mentre perlustrava la parte emersa dello scafo, un pompiere ha sentito le voci di un uomo e una donna che chiedevano aiuto. Prigionieri della nave, ma vivi. Altre due motovedette localizzano i superstiti due ponti al di sotto del livello sul quale stava lavorando la squadra dei soccorritori. Cabina 808, li raggiungono. Imiracoli ogni tanto accadono, anche quando tutto sembra destinato al peggio. Sono le 21.35 di venerdì quando i tavoli della sala al ponte 1 si rovesciano addosso ai commensali è a che stanno cenando. Un tonfo, un rumore sordo salito dalla pancia della nave. Poi altri quattro scossoni. Le luci si sono spente dopo qualche minuto, si vedevano solo quelle dell’Isola del Giglio, vicine, troppo vicine. Nessun altoparlante ha annunciato la deviazione, doveva essere una sorpresa, una visione per rendere ancor più lieta la prima giornata di viaggio di 3.216 turisti di venti nazionalità  diverse, accuditi da un equipaggio di 1.013 persone. Succede spesso, è quasi una tradizione dai tempi di Mario Palombo, storico comandante della Costa crociere, primo comandante della Concordia, gigliese di nascita che conosceva quei fondali come le sue tasche, sapendo bene dove si celavano le insidie. I passeggeri si ammassano ai punti di ritrovo, chiedono spiegazioni, sono spaventati. Nei corridoi le uniche luci accese sono i lampeggianti rossi che segnalano l’emergenza. « Non c’è nulla di cui preoccuparsi » è la risposta, « tornate dov’eravate » . Qualcuno si accorge che la nave sta riprendendo il largo, punta verso Nord, poi stringe ancora in direzione del porto del Giglio. Certo, nulla di cui preoccuparsi, ma in quegli stessi istanti il comandante Francesco Schettino ha capito di aver commesso un errore pazzesco, imperdonabile, e cerca un rimedio, una salvezza, con quella svolta a 180 gradi. Vuole portare la Costa Concordia in rada, ha capito che la nave sta affondando e se lo fa in mare aperto, sotto a un abisso profondo 70 metri, diventa una tomba per tutti. In pochi minuti mette insieme l’errore che lo segnerà  per una vita e lamanovra che salva centinaia di vite. Getta le due ancore che fanno perno consentendo allo scafo di invertire la rotta e di adagiarsi sulla scogliera. L’ordine di abbandonare la nave arriva solo allora, dopo che la Costa Concordia si è finalmente fermata, cominciando a inclinarsi. Sulla plancia della nave avvengono scene che fanno pensare a film celebri e tragici. Prima le donne e i bambini, urlano i marinai in inglese, ma questo non è il cinema, è una lotta per vivere o morire. I passeggeri si gettano sulle scialuppe, le barche di salvataggio cadono sui ponti più in basso, la gente si getta in acqua verso le zattere di salvataggio gonfiabili. L’evacuazione è puro delirio, non tutte le scialuppe vengono utilizzate, ne restano quattro che ancora adesso penzolano come moncherini dagli ormeggi che le legano alla Costa Concordia. Francis Servelle, Jean Pierre Michaud precipitano da uno dei punti più alti, il marinaio Alberto Costilla Mendoza scivola in mare mentre cerca di aiutare un gruppo di passeggeri a salire sulle scialuppa. Sono loro le prime tre vittime, muoiono annegati e assiderati. Al mattino l’Isola del Giglio e Porto Santo Stefano sembrano un teatro di guerra, con i fornire consulenze su un « mostro » lungo 290 metri e alto 57 dall’acqua alla punta della ciminiera, la più grande nave mai affondata in acque italiane. Ma il mistero più grande è quello di un uomo, di Francesco Schettino, il comandante. Quando lo incontriamo alla reception dell’hotel Bahamas, al Giglio, consulta una carta nautica e impreca. « Sembrava la secca del Zanneo » mormora in un soliloquio. Ma nelle mappe quel punto è 1.5miglia più a Sud, sotto Punta Torricella. Lascia capire che sul ponte di comando non c’era lui, dice che quel blocco di rocce non era segnato da nessuna parte. Ha gli occhi gonfi, e non solo per la stanchezza. La magistratura lo arresta in serata, troppe contraddizioni nelle sue parole, appena accennata l’ammissione di responsabilità  evidenti, « ho fatto una normale manovra turistica » . L’unico sussulto di orgoglio in un uomo che da subito è sembrato stretto tra rassegnazione e autodifesa soldati e i vigili del fuoco che montano tende da campo, le ambulanze che attendono una in fila all’altra, i superstiti che scendono dai traghetti avvolti in coperte, senza scarpe e vestiti. Nel riverbero del sole si intravede a pelo d’acqua il terzo e il più piccolo dei tre scogli delle « Scole » , così viene chiamato dai locali questo gruppo di rocce in granito. È stata quella la causa del tonfo, è quella una prima sentenza, perché le Scole annunciano l’ingresso al porto, distano appena un miglio da terra, nessuna rotta, per quanto turistica, consente un passaggio così azzardato. La Costa Concordia ha urtato di poppa lo scoglio più esterno, che ha sventrato lo scafo nella parte sommersa, un taglio lungo 75 metri e largo almeno due che ha aperto la nave all’altezza delle cabine dell’equipaggio. La prua è intatta. Come se vi fosse stato un tentativo estremo di evitare l’urto, almeno così sostengono i capitani di lungo corso chiamati a viene smentito da numerose testimonianze. Schettino è stato soccorso tra le 23.40 e mezzanotte. L’ultimo passeggero ha abbandonato la nave alle 3.15. La sottovalutazione, forse l’orgoglio folle di non ammettere il proprio fallimento. C’è anche questo peccato capitale, nella notte terribile del Giglio, non ascrivibile solo al comandante Schettino. Forse per questo c’è un primo ufficiale di coperta indagato e piede libero e altri ne verranno. Tra le 21.40 e le 22 di venerdì Ido Cavero, concessionario degli ormeggi comunali, passeggia sul lungomare tenendo in mano la radio sintonizzata sulle frequenze della guardia costiera. Sente il distaccamento di Porto Santo Stefano e Livorno che simettono in contatto con la Costa Concordia. « Dal Giglio abbiamo segnalazioni su qualcosa di anomalo a bordo, rispondete per favore » . Per tre volte la risposta è la stessa. « Abbiamo un black out ma lo stiamo sistemando » . Chiamano ancora. DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
SEGUE DALLA PRIMA
Adesso a ogni quadrato corrisponde una scialuppa, ogni tratto di penna che cancella un nome è una vita salvata. «Questo c’è, questo non lo troviamo negli elenchi». Il foglio steso sulla scrivania all’ingresso della capitaneria di porto è grande come un lenzuolo, una specie di collage ottenuto unendo gli elenchi delle persone a bordo, di quelle che sono sopravvissute, di quelle che non si trovano più. Ufficiali di marina e vigili del fuoco sono chini sul documento che tenta di tradurre in numeri questa giornata terribile. Un alto ufficiale di Marina solleva la testa. «Cristo santo» dice. Cala il silenzio. Ne mancano 52, tra equipaggio e passeggeri. No, sussurra qualcuno, forse i dispersi sono «solo» 34, ci sono 18 nomi che ricorrono più volte nel lenzuolo. La speranza in un bilancio più clemente si aggrappa solo a quelle ripetizioni, al caos delle liste e di soccorsi difficili, alla confusione che si mischia ad angoscia e speranza, come avviene a notte fonda, quando l’ultima pilotina dei Vigili del fuoco rientra in porto a velocità  folle. Mentre perlustrava la parte emersa dello scafo, un pompiere ha sentito le voci di un uomo e una donna che chiedevano aiuto. Prigionieri della nave, ma vivi. Altre due motovedette localizzano i superstiti due ponti al di sotto del livello sul quale stava lavorando la squadra dei soccorritori. Cabina 808, li raggiungono. I miracoli ogni tanto accadono, anche quando tutto sembra destinato al peggio.
Sono le 21.35 di venerdì quando i tavoli della sala al ponte 1 si rovesciano addosso ai commensali che stanno cenando. Un tonfo, un rumore sordo salito dalla pancia della nave. Poi altri quattro scossoni. Le luci si sono spente dopo qualche minuto, si vedevano solo quelle dell’Isola del Giglio, vicine, troppo vicine. Nessun altoparlante ha annunciato la deviazione, doveva essere una sorpresa, una visione per rendere ancor più lieta la prima giornata di viaggio di 3.216 turisti di venti nazionalità  diverse, accuditi da un equipaggio di 1.013 persone. Succede spesso, è quasi una tradizione dai tempi di Mario Palombo, storico comandante della Costa crociere, primo comandante della Concordia, gigliese di nascita che conosceva quei fondali come le sue tasche, sapendo bene dove si celavano le insidie. 
I passeggeri si ammassano ai punti di ritrovo, chiedono spiegazioni, sono spaventati. Nei corridoi le uniche luci accese sono i lampeggianti rossi che segnalano l’emergenza. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi» è la risposta, «tornate dov’eravate». Qualcuno si accorge che la nave sta riprendendo il largo, punta verso Nord, poi stringe ancora in direzione del porto del Giglio. Certo, nulla di cui preoccuparsi, ma in quegli stessi istanti il comandante Francesco Schettino ha capito di aver commesso un errore pazzesco, imperdonabile, e cerca un rimedio, una salvezza, con quella svolta a 180 gradi. Vuole portare la Costa Concordia in rada, ha capito che la nave sta affondando e se lo fa in mare aperto, sotto a un abisso profondo 70 metri, diventa una tomba per tutti. In pochi minuti mette insieme l’errore che lo segnerà  per una vita e la manovra che salva centinaia di vite. Getta le due ancore che fanno perno consentendo allo scafo di invertire la rotta e di adagiarsi sulla scogliera. 
L’ordine di abbandonare la nave arriva solo allora, dopo che la Costa Concordia si è finalmente fermata, cominciando a inclinarsi. Sulla plancia della nave avvengono scene che fanno pensare a film celebri e tragici. Prima le donne e i bambini, urlano i marinai in inglese, ma questo non è il cinema, è una lotta per vivere o morire. I passeggeri si gettano sulle scialuppe, le barche di salvataggio cadono sui ponti più in basso, la gente si getta in acqua verso le zattere di salvataggio gonfiabili. L’evacuazione è puro delirio, non tutte le scialuppe vengono utilizzate, ne restano quattro che ancora adesso penzolano come moncherini dagli ormeggi che le legano alla Costa Concordia. Francis Servelle, Jean Pierre Michaud precipitano da uno dei punti più alti, il marinaio Alberto Costilla Mendoza scivola in mare mentre cerca di aiutare un gruppo di passeggeri a salire sulle scialuppa. Sono loro le prime tre vittime, muoiono annegati e assiderati. 
Al mattino l’Isola del Giglio e Porto Santo Stefano sembrano un teatro di guerra, con i soldati e i vigili del fuoco che montano tende da campo, le ambulanze che attendono una in fila all’altra, i superstiti che scendono dai traghetti avvolti in coperte, senza scarpe e vestiti. Nel riverbero del sole si intravede a pelo d’acqua il terzo e il più piccolo dei tre scogli delle «Scole», così viene chiamato dai locali questo gruppo di rocce in granito. È stata quella la causa del tonfo, è quella una prima sentenza, perché le Scole annunciano l’ingresso al porto, distano appena un miglio da terra, nessuna rotta, per quanto turistica, consente un passaggio così azzardato. 
La Costa Concordia ha urtato di poppa lo scoglio più esterno, che ha sventrato lo scafo nella parte sommersa, un taglio lungo 75 metri e largo almeno due che ha aperto la nave all’altezza delle cabine dell’equipaggio. La prua è intatta. Come se vi fosse stato un tentativo estremo di evitare l’urto, almeno così sostengono i capitani di lungo corso chiamati a fornire consulenze su un «mostro» lungo 290 metri e alto 57 dall’acqua alla punta della ciminiera, la più grande nave mai affondata in acque italiane. 
Ma il mistero più grande è quello di un uomo, di Francesco Schettino, il comandante. Quando lo incontriamo alla reception dell’hotel Bahamas, al Giglio, consulta una carta nautica e impreca. «Sembrava la secca del Zanneo» mormora in un soliloquio. Ma nelle mappe quel punto è 1.5 miglia più a Sud, sotto Punta Torricella. Lascia capire che sul ponte di comando non c’era lui, dice che quel blocco di rocce non era segnato da nessuna parte. Ha gli occhi gonfi, e non solo per la stanchezza. La magistratura lo arresta in serata, troppe contraddizioni nelle sue parole, appena accennata l’ammissione di responsabilità  evidenti, «ho fatto una normale manovra turistica». L’unico sussulto di orgoglio in un uomo che da subito è sembrato stretto tra rassegnazione e autodifesa viene smentito da numerose testimonianze. Schettino è stato soccorso tra le 23.40 e mezzanotte. L’ultimo passeggero ha abbandonato la nave alle 3.15. 
La sottovalutazione, forse l’orgoglio folle di non ammettere il proprio fallimento. C’è anche questo peccato capitale, nella notte terribile del Giglio, non ascrivibile solo al comandante Schettino. Forse per questo c’è un primo ufficiale di coperta indagato e piede libero e altri ne verranno. Tra le 21.40 e le 22 di venerdì Ido Cavero, concessionario degli ormeggi comunali, passeggia sul lungomare tenendo in mano la radio sintonizzata sulle frequenze della guardia costiera. Sente il distaccamento di Porto Santo Stefano e Livorno che si mettono in contatto con la Costa Concordia. «Dal Giglio abbiamo segnalazioni su qualcosa di anomalo a bordo, rispondete per favore». Per tre volte la risposta è la stessa. «Abbiamo un black out ma lo stiamo sistemando». Chiamano ancora. «Guardate il comando provinciale dei carabinieri ci riferiscono messaggi di vostri passeggeri che segnalano gravi anomalie». La quarta replica è uguale alle altre. 
Eppure anche questi sembrano dettagli, in un pomeriggio passato sul molo del Giglio, pieno di soccorritori e angoscia, sempre più vuoto di speranza con il passare del tempo. 
È un gesto di coraggio. Dopo i primi soccorsi ai superstiti, le altre operazioni intorno alla Costa Concordia sono state un lungo esercizio di impotenza. Impossibile mettere la nave in sicurezza, c’è il rischio che scivoli su un fondale di settanta metri. Impossibile calarsi dentro per i sommozzatori, che rischierebbero di essere trascinati sul fondo con il relitto. Poche certezze, il ponte 4 che è crollato, l’acqua che ha travolto anche il principale punto di ritrovo al livello zero. 
Così la lista degli assenti all’appello diventa un feticcio al quale aggrapparsi contro l’indicibile. Contro il timore sempre più concreto che le 150 cabine di quei quattro ponti sommersi e inviolabili possano rivelarsi delle bare d’acqua. Con il buio avanzano pensieri altrettanto neri, il pendolo dei dispersi si ferma a quota quaranta. «Temiamo che all’interno della nave possano esserci delle persone, forse decine» dice Ennio Aquilino, comandante dei Vigili del fuoco di Grosseto mentre esce dalla capitaneria. Il lenzuolo è ancora steso sul tavolo, pieno di correzioni, nomi aggiunti, altri cancellati. L’alto ufficiale è accasciato sulla sedia. «Cristo santo, quaranta. Gesù, fa che non sia così». Intorno a lui, una decina di persone. Nessuno se la sente di aggiungere altro. All’improvviso arriva la notizia, c’è ancora vita sulla nave. Gesù, fa che sia davvero così.


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