Il mondo di Rizzolati, ecco i neuroni dell’empatia

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Basta guardare qualcuno dei tanti video che circolano su You Tube, o meglio ancora leggere il volume che il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti ha scritto con il filosofo Corrado Sinigaglia (So quel che fai, Cortina editore), per capire l’eccezionalità  della scoperta dei “neuroni specchio”, neuroni che si attivano non soltanto quando siamo noi a compiere un’azione, ma anche quando, ed è questa la sorpresa non contemplata dalla fisiologia classica, la vediamo compiere da un altro. «Scoperti all’inizio degli anni Novanta», è scritto nel libro, «essi mostrano come il riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni dipende in prima istanza dal nostro patrimonio motorio». Percezione e azione, insomma, vanno insieme: «il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende». 
Ora, perfino la persona più digiuna di scienza, come il sottoscritto, si rende immediatamente conto delle infinite ricadute di tale scoperta: non soltanto in ambito medico, ma psicologico, estetico, filosofico. I “circuiti specchio”, infatti, ineriscono a molte esperienze di tipo sociale, che vanno dall’imitazione alla comunicazione gestuale e verbale, senza contare le emozioni mediate da quell’area neurologica detta insula, la quale si attiva davanti alla sofferenza dell’altro, facendola sentire come propria. L’empatia, questa è la conclusione, ha una precisa base biologica e regola il rapporto tra le persone. Ecco spiegato perché il celebre neurologo indiano Vilayanur S.Ramachandran si è spinto ad affermare: «i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il Dna è stato per la biologia». 
Capofila di questa rivoluzionaria scoperta è Giacomo Rizzolatti, una bellissima faccia da moschettiere e modi semplici, schietti. Direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università  di Parma e da tempo in odore di Nobel, in questo preciso istante è diviso tra l’intervista e un ben più decisivo incontro per ottenere da una fondazione nuove risorse per la sua ricerca. 
«Lei mi chiede cosa rappresenti, per uno scienziato come me, la parola “verità “. Tutto, direi. È la nostra missione: un valore assoluto. Perché vede, la parola “relativismo” ha un significato quanto mai positivo, se la coniughiamo con Montaigne e le guerre di religione del ‘600. Ma è tutto un altro paio di maniche, se quella parola finisce in bocca a certi filosofi contemporanei che la utilizzano per dimostrare l’insussistenza di fatti oggettivi. Sono un medico e so bene che se la glicemia non rientra in certi valori, il malato che ho di fronte muore. È un dato di fatto, incontrovertibile. Oppure: prenda la legge di gravità , o la velocità  della luce. Sono entrambe soggette a misurazione e certo non rientrano nella categoria dei fenomeni relativi, modificabili a seconda del contesto sociale o delle interpretazioni individuali. Gli scienziati sanno, e in particolare lo sanno i biologi, che esistono aspetti della realtà  indiscutibili. Naturalmente la cultura esercita un ruolo, ma entro i limiti imposti dalla biologia». 
Però l’idea di revocabilità  è intrinseca alla forma mentis scientifica. Thomas Kuhn parlava di slittamenti tra i diversi paradigmi scientifici.
«La scienza procede per successive approssimazioni, ma non per questo i risultati raggiunti finiscono per essere negati. Semmai vengono riscritti dentro un’altra cornice. Secondo nuove ricerche i neutrini potrebbero viaggiare a una velocità  superiore a quella della luce. Ma questo non metterà  in discussione la velocità  con cui viaggia la luce». 
La vostra ricerca sui neuroni specchio era cominciata con le scimmie, poi, a un certo punto si è spostata sugli umani e ha dato i sorprendenti risultati che sappiamo. Le domando: nel suo lavoro che ruolo giocano la fantasia e il caso?
«Più che di fantasia, io parlerei di talento. Le persone comuni spesso lo ignorano, ma nel nostro mestiere il talento conta moltissimo. È una cosa acclarata per i matematici, non altrettanto per i biologi. Quando ero ragazzo anch’io pensavo che lo scienziato, alla fin fine, è soltanto un osservatore attento che mette in ordine i dati che via via gli si presentano. Non è così. Per scoprire qualcosa di nuovo occorre lo stesso talento di un compositore capace di creare nuovi legami tra note e melodie. Nel nostro caso si tratta di cogliere l’aspetto nascosto delle cose, di connettere aspetti comportamentali apparentemente lontani tra loro». 
Quanto al caso, invece, che ruolo ha giocato durante la ricerca dei neuroni specchio? 
«Non è stato così rilevante come potrebbe sembrare. Più semplicemente, a un certo punto abbiamo cambiato strategia. Prima però devo ricordare un altro fatto: la maggior parte degli studiosi che ci hanno preceduto erano convinti che il sistema motorio produce soltanto dei movimenti. Dunque la loro ricerca si riduceva ad un accumulo quantitativo di dati. Il nostro approccio nei confronti delle scimmie era invece più etologico. Ci rapportavamo a esseri viventi che entrano in contatto con altri esseri delle stessa specie, oltre che con gli uomini. A noi insomma interessava ricostruire il “racconto” dei neuroni delle scimmie. Per questo giocavamo con loro, davamo loro da mangiare, eccetera. E a un certo punto abbiamo scoperto che certi neuroni si attivavano sia quando erano loro ad afferrare un oggetto o a prendere del cibo, sia quando eravamo noi a compiere le medesime azioni. Avremmo potuto tralasciare la cosa, invece siamo stati bravi a focalizzare l’attenzione proprio su questo punto. Perché da lì è cominciato tutto: è cambiata la nostra strategia, e i nostri esperimenti si sono indirizzati anche verso gli esseri umani». 
Qual è la definizione più semplice e sintetica di neurone specchio? 
«È un neurone che offre la descrizione dell’azione altrui in termini motori propri di colui che la osserva. Vede, esistono due forme di conoscenza. La prima è di tipo logico-inferenziale, alla Sherlock Holmes. Osservando una persona che afferra un bicchiere in un certo modo, ne deduco che lo sta prendendo per bere la birra che vi è contenuta, oppure per passare quel bicchiere a un altro signore o ancora per sbatterlo contro il muro. Ma esiste anche un’altra forma di conoscenza, più empatica, fenomenologica, alla Merleau-Ponty. Ovvero: io non ho bisogno di fare quel lungo tragitto conoscitivo di tipo logico-inferenziale, perché dentro di me, nel mio sistema nervoso, esiste già  un progetto simile al tuo. E lo colgo immediatamente. È questo che abbiamo dimostrato: esistono dei programmi motori identici tra i diversi individui. Se una persona piange, dentro di me piangerà  la stessa area neurologica che si attiva quando a piangere sono io. E lo stesso accade con le diverse forme di dolore o di disgusto».
Ne consegue che il sistema motorio non è un semplice esecutore di comandi, ma uno strumento di conoscenza a tutti gli effetti. 
«Esattamente. E difatti: se arrivasse un marziano e cominciasse a fare dei gesti strani, incomprensibili, non si determinerebbe nessuna reazione intima del nostro sistema motorio. Se invece io vedo una persona saltare o correre, mi agito, imito il suo gesto, vorrei farlo anch’io. Perché ciò che lui sta facendo è già  dentro di me. Per questo capisco immediatamente cosa c’è dietro quel suo gesto. Perché dentro di me esiste una copia esatta di quel comportamento». 
Ha mai provato a verificare l’attività  dei neuroni specchio in ambito artistico? 
«Sì, e qui si torna all’empatia. Abbiamo lavorato con alcune immagini di sculture classiche, greche e rinascimentali, e grazie all’aiuto di amici matematici abbiamo cambiato, appena appena, la loro proporzione aurea. Ebbene, la cosa interessante è che a quel punto l’attivazione delle aree visive corticali permaneva, ma quella della struttura emozionale, l’insula, veniva a mancare. Questo significa che geni come Prassitele o Donatello riescono a suscitare dentro di noi una vera e propria reazione biologica». 
Professore, volendo ricapitolare il senso più generale della sua ricerca: qual è il fine ultimo che la anima?
«Definire il funzionamento del sistema nervoso con la migliore approssimazione possibile. Da giovane ero a Pisa e lavoravo con il professor Moruzzi: nei nostri laboratori regnava un’atmosfera quasi mistica. Anche allora non c’erano abbastanza soldi per la ricerca, non è certo una novità  degli ultimi anni. Ma noi lavoravamo come dannati, nella convinzione che non avremmo mai guadagnato come dei chirurghi o dei medici alla moda, ma in compenso facevamo quello che ci piaceva. E quello che ci piaceva era utile alla società . Si può ambire a qualcosa di più? È lo stesso insegnamento che ho cercato di trasferire ai miei allievi: perseguire la ricerca della verità  con tenacia e pazienza. Assumendosi però, al momento opportuno, tutti i rischi necessari. È una lezione che mi dette il premio Nobel John Eccles. Controlla bene tutti i dati che hai a disposizione: ma quando sei intimamente convinto di quello che hai fatto, compi l’azzardo. Esponiti al pericolo di essere criticato, ma prova finalmente a dire la tua».


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