La vendetta di Gheddafi: i tuareg minano il Mali

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Dove si deve fermare la «primavera araba»? I tuareg dell’Azawad – la zona di Sahara fra il nord del Mali, il nord del Niger e il sud dell’Algeria – possono legittimamente aspirare a fare parte della primavera? No perché sono armati mentre le masse di Tunisi e del Cairo non lo erano? Ma anche gli «insorti» libici e i «disertori» siriani sono armati e sono parte integrante della primavera. Allora? Allora non ci si capisce più niente. Peggio, si capisce tutto fin troppo bene.
Ora a scricchiolare è il Mali, poverissimo e vastissimo paese del Sahel africano guidato dal presidente Amadou Toumani Touré, ma soprattutto importante alleato degli Stati uniti contro la filiale regionale di al Qaeda, l’Aqmi (al Qaeda del Maghreb islamico). I tuareg, i mitici «uomini blu» di tanti film esotici, che vagano nomadi per il Sahara senza conoscere i confini (spesso) inventati dalle vecchie e nuove potenze coloniali, non sembrano avere molto a che fare con gli ultrà  di al Qaeda. Ma reclamano, e non da ora, un’area (un paese? una nazione?) autonoma fra le montagne di quella vasta, spopolata e inospitale regione. L’Azawad. Per cui è (di nuovo) sceso in campo il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla). Come, ricorrentemente, negli anni ’60 e ’90, e ora, più di recente, nel 2006 o nel nel 2009.
Tutto questo è un effetto della «guerra umanitaria» in Libia, dichiarata e combattuta, oltre che dagli insorti sul campo, dai crociati dell’occidente che volevano disfarsi dell’ormai decotto ma sempre inaffidabile Gheddafi: Francia, Inghilterra, Stati uniti, Italia e le petro-monarchie del Golfo impegnate a fermare a ogni costo il virus della primavere sul fronte libico, prima che arrivasse a casa loro. 
Ora il Mali è sotto stress, e del tutto impreparato. Una vendetta postuma del colonnello Gheddafi. Che in vita si spese molto per fomentare guerre di liberazione, insurrezioni o destabilizzazioni nei paesi africani a sud della Libia – non solo il Ciad degli anni ’70-’80 e i limitrofi Niger e Mali ma Angola, Zimbabwe, Eritrea, Guinea Bissau, Mozambico, Namibia… – e che sembra continuare a farlo da dopo morto. 
L’onda d’urto del conflitto libico haragiunto il Mali (per ora). I reparti tuareg che combattevano a fianco di Gheddafi contro gli insorti, dopo la sconfitta e il linciaggio del raìs sono tornati a sud, nel loro habitat. E dal 17 gennaio, quando hanno sferrato un attacco all’esercito di Bamako nel nord del paese, hanno lanciato la «guerra di liberazione dall’occupazione maliana». Non sono tanti, si parla di un migliaio di combattenti guidati da «un colonnello delle forze armate libiche» e, ieri, un’agenzia di stampa, scriveva addirittura che alla loro testa ci sarebbe Abdullah al Senoussi, il famoso/famigerato capo dei servizi segreti gheddafiani, dato più volte per morto o catturato nella guerra civile libica ma sfuggito alla sorte sia di Muammar (linciato a Sirte) sia del figlio Saif al Islam (catturato a Bani Walid). Un migliaio di combattenti bastano a creare una minaccia seria per il (debole) regime di Bamako e per le (deboli e malearmate) truppe maliane. Perché i combattenti del Mlna andandosene dalla Libia si sono portati dietro un temibilissimo arsenale d’armi. Per le truppe maliane non si tratta più di scontrarsi con bande di tuareg armati di kalashnikov ma con «veterani» di guerra armati fino ai denti con armi sofisticate e pesanti. 
Da gennaio, nel nord sahariano del Mali, gli scontri si sono ripetuti e i morti da entrambi le parti si contano a decine se non a centinaia. Un clima di guerra che ha costretto alla fuga popolazioni civili prese fra due fuochi – non solo i tuareg, ma i songhoi, i fulani e le altre etnie del deserto -, ora riparate in condizioni terribili nei paesi vicini: in Niger (10000), Mauritania (9000), Algeria (3000), e abbandonate a se stesse: ieri anche l’ong Doctors of the World/Médicins du monde ha annunciato la «sospensione» delle attività  nel nord del Mali per le condizioni di insicurezza del suo personale medico. Un altro segnale di una situazione che al di là  delle bei propositi, sta sfuggendo di mano a coloro che l’hanno fomentata: è di qualche giorno fa la notizia che l’altro gruppo umanitario – Medici senza frontiere – ha deciso di «sospendere» le sue attività  a Misurata, in Libia.
Come raccontava al New York Times Bajan Ag Hamatou, dignitario della città  di Mékala, est maliano al confine col Niger investita dall’afflusso di profughi, l’occidente (noi), col pretesto della democrazia in Libia, ha provocato un pandemonio nel cortile restrostante: «Gli occidentali non volevano più Gheddafi e se ne sono disfatti. Ma hanno creato problemi per tutti noi. Quando vi siete liberati di Gheddafi in quel modo barbaro, avete creato altri dieci Gheddafi. E l’intera regione saharo-saheliana è diventata invivibile».


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