Il disgusto del tecnico

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Forse i ministri tecnici non hanno ancora capito che i giornalisti possiedono orecchie lunghe. E forse il professor Riccardi non si è reso conto che la sua smentita, emessa all’ora di cena con opportuno corredo di scuse, suona fin troppo e doverosamente «politica» per apparire sincera. Il fatto che poche ore prima il ministro, in un colloquio che di questi tempi non si può più definire privato, abbia usato una parola forte, «schifo», per definire un certo andazzo non impedisce di richiamare dei celebri versi di un poeta anche lezioso e manierato come il Metastasio, che oltretutto è romano come Riccardi, e dunque: «Voce del sen fuggita/ più richiamar non vale;/ non si trattien lo strale/ quando dall’arco uscì».
Che di «strale» si sia trattato, e cioè di una bella frecciatona a quel che resta del sistema dei partiti, non v’è dubbio. Vero è pure che il linguaggio usato non deve troppo scandalizzare. Da una veloce indagine sulla benemerita banca dati dell’Ansa, risulta che dal 1994 a oggi lo «schifo» è entrato nei titoli politici la bellezza di 97 volte. Ai più curiosi – e morbosi – farà  forse piacere di apprendere che i recordman della schifomania sono Calderoli e Diliberto, ma anche D’Alema, Speroni, Storace non scherzano, seguono Rutelli e La Russa, mentre per originalità  d’uso si segnalano Brunetta («Questa sinistra mi fa leggermente schifo») e Berlusconi, che appena investito dal ciclone Ruby ebbe a designarlo: «Uno schifo con finalità  eversive». 
Ma a ben vedere il punto delicato non riguarda tanto il conclamato ribrezzo per certe abitudini del Palazzo quanto la folgorante evidenza rivelatoria di un atteggiamento, di una superiorità  e dunque di un conflitto che finora si è cercato, in particolare il presidente Monti ha cercato in tutti i modi di tenere sotto la cenere. Per farla breve: tecnici contro politici.
Anche in questo, come in questo tipo di faccende, non c’è nulla di nuovo e di esclusivo. Per certi versi la rivalità  tra professori e uomini dei partiti esiste dal dopoguerra e in tempi più recenti – governo Ciampi, poi governo Dini – lo scontro fra le due categorie o corporazioni, in verità  mai del tutto incontaminate e genuine, è apparso chiaro; come pure a volte si è parzialmente risolto con la trasformazione dei tecnici in politici – e l’esempio di Prodi è il primo che viene in mente.
«Passanti ignari»: così il sarcasmo di un politico mordace come Rino Formica si accaniva a suo tempo contro i tecnici. La novità , semmai, sta nel fatto che da allora il contesto partitico si è di gran lunga logorato e oggi decisamente vira verso una evidente decomposizione. Fra tele-populismo inconcludente, economia in crisi, indegnità  di vario genere e insorgenze anti-casta, la condizione dei partiti e dei loro leader oscilla dal discredito al ludibrio. E sia pure convinto di non essere ascoltato dai giornalisti, ma proprio per questo con la massima spontaneità  e in piena complicità  con i suoi colleghi professori, più che un «passante ignaro» il ministro Riccardi rivendica di sentirsi un corpo estraneo e, se consentito dalla sua cultura, anche una pietra d’inciampo.
C’è da dire che Monti non se l’è finora potuto concedere. Anzi non ha perso occasione per ringraziare e valorizzare oltremodo l’apporto dei partiti, sempre sottolineando di essere «di passaggio»: il suo compito non è solo quello di «fare le cose», ma anche di preparare il loro ritorno, e quando finalmente se ne ne sarà  andato il clima sarà  «più civile, più disteso, più» e così via, pure tradendo una incontrollabile degnazione. Una volta SuperMario il tecnocrate, di cui si è saputo che ha fatto le scuole dai gesuiti, pure partecipando con successo al «Concorso Veritas», ha confessato addirittura di «provare pena» per i politici «trattati così male» dall’opinione pubblica, con il che ha esteso il suo ruolo fino a comprendere una «riconciliazione». Inutile dire che questo ha aggravato negli animi smaliziati di Alfano, Bersani, Casini e compagnia cantante qualche diffidenza e qualche timore supplementari, ma tant’è.
Però ieri Riccardi, che ha l’aggravante di essere uno storico, per giunta assai stimato da Santa Madre Ecclesia, ha aggiunto al proprio anche rispettabile schifo per certe pratiche una frasetta assai più importante: «Quei tempi – ha detto il fondatore della Comunità  di Sant’Egidio – sono finiti». Proprio a lui del resto si deve una delle più efficaci formule pronunciate a caldo per spiegare il passaggio d’epoca segnato dal governo tecnico: «Dal Carnevale alla Quaresima».
Liturgicamente tempestivo, il motto vorrebbe sintetizzare il ritorno della decenza, della buona educazione, della riflessione prudente; e poi la fine degli eccessi, del cinepanettone, degli sprechi, delle risse da talk-show. Tutte cose sperabili, c’è da dire, tecniche o non tecniche che siano.


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