“A Melfi la Fiat licenziò per cacciare i sindacalisti”

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I licenziamenti dei tre operai della Fiat di Melfi iscritti alla Fiom furono «nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo». Un licenziamento politico dunque, «con conseguente e immediato pregiudizio per l’azione e la libertà  sindacale». Nelle ore in cui si fa più aspro lo scontro sulla libertà  di licenziamento in Italia con la battaglia sull’articolo 18, un esempio pratico viene dalle motivazioni della sentenza con cui la corte di Appello di Melfi ha condannato il Lingotto per attività  antisindacale imponendo il reintegro sul posto di lavoro dei tre licenziati. Come si ricorderà  il 23 febbraio scorso, quando era stato reso noto il dispositivo della sentenza, la Fiat aveva reagito annunciando con un telegramma che «non intende avvalersi della prestazione lavorativa» dei tre licenziati. Che, pare di capire, rimarranno comunque a casa anche se la sentenza di appello venisse confermata in Cassazione. 
Le motivazioni, pubblicate ieri sera, confermano che, a parere della Corte, nella notte tra il 6 e il 7 luglio 2010, i tre licenziati non effettuarono alcun sabotaggio della produzione, come invece sostenne all’epoca il Lingotto, perché le linee erano già  state fermate prima del loro intervento. E inoltre i tre erano insieme ad altri lavoratori «ai quali la Fiat non ha contestato nulla». Nell’occasione piuttosto il caporeparto avrebbe assunto «un atteggiamento provocatorio» nei confronti del tre iscritti alla Fiom, confermato, fanno osservare i giudici, «in un documento unitario sottoscritto da tutti i delegati nell’immediatezza dei fatti». Dunque il licenziamento è illegittimo, deciso solo per liberarsi di tre sindacalisti scomodi. Nessun commento dal Lingotto. Marchionne è negli Usa dove ieri ha elogiato «l’impegno dei lavoratori della Chrysler» per la rinascita dell’azienda. «Le motivazioni della sentenza – ha invece commentato a caldo l’ex ministro del lavoro, Cesare Damiano – dimostrano quanto sia necessario tenere alta la guardia sul tema dei licenziamenti». 
La Fiat interviene piuttosto per lamentare le conseguenze dello sciopero delle bisarche, i camion che trasportano le auto ai concessionari, che finisce per bloccare la produzione negli stabilimenti. Ieri Torino ha annunciato nuovi fermi a Cassino (27,28 e 29 marzo) e a Pomigliano (26 e 27) per la prossima settimana. Lo sciopero si protrae ormai da tempo ed è indirettamente causato dalla crisi del settore auto. La protesta è promossa dall’Associazione bisarche italiane che aderisce a Trasportounito. Si tratta del sindacato dei cosiddetti «padroncini» che lavorano su commessa delle grandi società  di distribuzione delle automobili. La crisi ha ridotto il numero di viaggi necessari a rifornire i concessionari e l’aumento del prezzo dei carburanti ha fatto il resto. Per rientrare nei costi i padroncini chiedono alle case costruttrici di mediare con le grandi agenzie di distribuzione per riequilibrare i guadagni sul trasporto: «A chi acquista una 500 ad Avellino – esemplifica in un comunicato Bisarche Italiane – viene applicato un costo di 530 euro mentre al trasportatore ne arrivano solo 17». La gran parte del costo del trasporto finisce dunque alle società  della logistica che fanno da intermediario. I padroncini hanno chiesto che venga elaborata anche per il loro settore, come avviene per altri, una tabella minima delle tariffe di trasporto. Anche in considerazione della particolarità  dei camion utilizzati che, a differenza dei tir, possono essere utilizzati per un solo tipo di merce. Ieri pomeriggio i principali operatori logistici hanno accettato di incontrare i padroncini per trovare una mediazione sulle tariffe. I bisarchisti chiedono di alzare l’attuale tariffa di 1,20 euro a chilometro sopra 1,70.


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