Violenza tra due mondi

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Il rischio, nel leggere i racconti di Sudabeh Mohafez, iraniana trapiantata in Germania, è di recepirli come l’ennesima particella di quella nebulosa più o meno letteraria che va sotto il nome di scrittura migrante o della migrazione. Ma in Cielo di sabbia (traduzione di Anna Ruchat, Keller, pp. 112, euro 11) le pagine forgiate dallo strappo esistenziale dell’esilio sono forse le meno incisive, comunque non le più importanti per cogliere il valore del libro. Certo, può risultare molto suggestivo che in pieno centro di Berlino, a pochi passi dall’ormai demolito Trà¤nenpalast e dal Berliner Ensemble fondato da Brecht, all’improvviso dai riflessi della Sprea si erga immenso il Tamavand, il monte, anzi «la corona di Teheran». O che il trapianto linguistico e culturale assuma la parvenza lirica e onirica di un viaggio tra luoghi incantati. 
Ma il vero punto di forza del volume è nella trattazione del tema della violenza. Del resto apprendiamo dal risvolto di copertina che l’autrice collabora con varie organizzazioni non governative che si occupano di prevenzione della violenza. Il suo impegno civile, tuttavia, si traduce sulla pagina in una rappresentazione «neutrale» e narrativamente virtuosa, con l’effetto di suscitare tanta più empatia – e tanto più rabbioso senso d’impotenza. È quello che proviamo davanti al trattamento subito dalla piccola Lea e dai suoi due fratellini nel racconto che dà  il titolo al volume: colpevoli di svegliarsi durante un viaggio in automobile mentre il padre sta godendosi gli istanti culminanti di un piacere sessuale procurato dalla moglie, vengono da lui prima battuti e poi scagliati fuori dall’auto in pieno deserto. Solo lo sguardo poetico e sognante della bimba sa riscattare, a posteriori, l’angoscia di quel momento. Diversamente paralizzante è il racconto, da parte di un figlio disorientato dalla morte del padre, delle violenze parentali subite per tutta una giovinezza: il rapporto simbiotico tra il sadico e il suo oggetto svela qui la propria irresolubilità  affettiva, un’inquietante «necessità » la cui giustificazione da parte della vittima è una sfida alla comune capacità  di comprensione. 
La violenza familiare è presente anche nel primo e più corposo racconto della raccolta, ma qui funziona più che altro come propulsore di una narrazione in cui il dissidio più espressivo è quello tra la povertà  trasparente di una vita in caverna alla periferia di Teheran e il benessere ambiguo, facciata di oscure violenze domestiche, di una famiglia borghese occidentale. La protagonista Nà¢hid è l’elemento di raccordo tra i due mondi: dopo alcuni anni come donna delle pulizie, Nà¢hid è licenziata, tuttavia vuole fare un’ultima visita alla donna per cui lavorava. L’itinerario di Nà¢hid per le vie di Teheran è un’avventura di per sé, che l’autrice è brava a sviluppare in un crescendo calibrato di tensione narrativa, attraverso l’incontro con la giovane e ricca borghese tedesca alla quale Nà¢hid consiglia di abbandonare o persino uccidere l’uomo che usa violenza su di lei e il loro figlio, fino al prelevamento di quest’ultimo a scuola, nella speranza cieca di allontanarlo per sempre dal mostro. 
Certo, la realtà  non si lascia cambiare tanto facilmente, tanto più da chi vive ai margini, reietto o perdente; ma un barlume di senno, più che di speranza, può forse nascere, così pare suggerire Mohafez, proprio da una simile, piccola, velleitaria infrazione dell’ordine costituito. Senza che per questo ci si illuda di poter sradicare dal mondo quel male, qui soprattutto maschile e patriarcale, che è tutt’uno con la patologia del potere.


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