La schiavitù in piazza

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Il 5 dicembre a Motta San Giovanni, un piccolo comune affacciato sullo Ionio e il Tirreno dalle colline che dominano Reggio Calabria, è tutta una santabarbara: si celebra la patrona dei minatori, si ricordano i tanti morti nelle miniere e si rende omaggio ai sopravvissuti. La folla festante si accalca nella piazza principale, in quella stessa piazza dove, fino a qualche decennio fa, più volte all’anno i giovani disoccupati si ritrovavano ad attendere che gli emissari delle imprese minerarie del Nord passassero a portarli via, offrendo loro un futuro da talpe in miniere e gallerie. Lo stesso copione andava in onda in altri luoghi della Calabria: Petilia Policastro, Colosimi, San Giovanni in Fiore. 
Dal centro alle periferie
Negli stessi anni, in decine di paesi appenninici dell’alta Calabria, della Campania, della Lucania e del Molise in giugno, mese della mietitura, all’avviso del banditore numerosi uomini si mettevano in mostra dall’alba nella piazza principale, falce in pugno, nella speranza di essere reclutati dai «caporali» per la raccolta del grano nelle Puglie. 
Quello che accadeva invece nella piazza Orsini di Benevento ogni 15 agosto, in occasione della festa dell’Assunta, non aveva simili nel resto del Mezzogiorno. In quella data convenivano a frotte da tutta la provincia le famiglie più povere, che ponevano all’asta per i possidenti terrieri quanto di più prezioso avevano: i propri figli, destinati a servire un padrone per un anno intero, dall’otto settembre a quello successivo.
Abbiamo imparato a conoscere le piazze del sud Italia come fulcri della socialità , centri nevralgici della politica e degli affari, luoghi deputati all’ozio e alla festa, ai riti religiosi e alle grandi adunate. Se la vita collettiva passava da lì, si può comprendere come in determinate occasioni diventassero anche il luogo ideale dove braccia a buon mercato potevano mettersi in mostra e proporsi come operai per le fabbriche del nord o come stagionali per la mietitura in Puglia e nella piana di Sibari, per la raccolta dei pomodori o delle fragole nella piana del Sele o ancora come guardiani di pecore e vacche. 
E non è un caso che oggi, rimpiazzati gli italiani con gli immigrati e avendo perso le piazze ogni centralità  rispetto alla vita collettiva e all’economia dei paesi (supermercati e centri commerciali di rado si trovano in centro, più spesso nelle periferie), anche i mercati informali di forza lavoro si siano spostati ai margini delle città , invisibili ai più come lo sono i loro protagonisti: gli «smorzi» dove rumeni e moldavi vengono assoldati a giornata, e al nero, dai caporali dell’edilizia; le rotonde e piazzole dove gli africani aspettano che passi qualcuno a selezionarli per il lavoro nei campi.
Per un sacco di grano
L’occasione per queste riflessioni è offerta da un libro appena data alle stampe da Ediesse. Si intitola semplicemente Il mercato dei valani a Benevento, ed è opera di Elisabetta Landi, una ricercatrice di storia orale (pp. 115, euro 10). È un libro fondato per intero su testimonianze dei protagonisti, e ha il merito di riportare alla luce una usanza proseguita sino ai primi anni ’60 in tutto il Mezzogiorno, ma nonostante questo consegnata all’oblio come tanta parte del nostro recente passato: quella, per le famiglie più indigenti e numerose, di mandare i propri figli «a garzone», come «valani» (o più correttamente in dialetto beneventano «gualani»), a lavorare in condizione servile al servizio di proprietari terrieri e coloni, solitamente in cambio di vitto, alloggio (nella stalla e, per i più piccoli, nella mangiatoia) e qualche sacco di grano, quasi mai di denaro.
Sotto gli occhi di Alvaro
La trattativa, quando non ritualizzata in un evento pubblico come a Benevento, avveniva di solito in modo sotterraneo, direttamente tra le famiglie e i datori di lavoro. E la condizione di schiavitù era resa socialmente accettabile da un’antica consuetudine che né il fascismo né i primi governi del dopoguerra riuscirono a eliminare, fin quando le prime inchieste giornalistiche raccontarono il fenomeno all’Italia e lo resero intollerabile agli occhi dell’opinione pubblica. 
Lo descrissero, tra gli altri, Corrado Alvaro che raccontò quanto aveva visto con i propri occhi (Il mercato degli schiavi, 1953) e Guido Piovene in Viaggio in Italia. Ma se il primo lo restituì in tutta la sua durezza soffermandosi sui protagonisti e le loro famiglie («Il ragazzo poteva avere dodici anni, indossava una camicia gialla d’una cotonina di veste femminile, orlata ai polsi e al collo di un’abbottonatura di un nastro violetto. Era quello che richiamava alla mente una madre. La madre non c’era. C’era il padre, ottuso, come sordo, in silenzio. Pareva non esistesse un rapporto fra i due, padre e figlio»), il secondo tacciò le ricostruzioni giornalistiche di «esagerazioni ed errori di tono» («Non risulta vero, ad esempio, che gli agricoltori usassero palpare i ragazzi, guardar loro i denti, come si fa con gli animali; né che i ragazzi cadessero in schiavitù. Si trattava di una vecchia pratica, veduta qui sotto luce speciale, tra gente di fondo umano e gentile»).
La piuma sul cappello
Le parole dei protagonisti fanno però piazza pulita di ogni minimizzazione o teoria giustificazionista. Gli stessi ex valani non hanno alcuna remora nel definirsi «schiavi». Ecco cosa racconta uno di loro, Vito Maio, a Elisabetta Landi: «Ho fatto il valano dal 1943 al 1950. Avevo tredici anni e mio padre mi prese e mi portò a Benevento a piazza Orsini dove si vendevano, chiamiamoli, schiavi. Sono andato a garzone a fare il pecoraro, mi pattuirono per un quintale di grano e 1.500 lire. Allora il padrone, la prima cosa che fece mi venne a guardare in bocca se avevo i denti buoni, se ero robusto con i muscoli, per vedere che forza c’avevo, perché loro dovevano sfruttare al massimo quello che potevano». Una descrizione che coincide con quella di Alvaro: «I compratori di schiavi esaminavano la dentatura, le gambe, il petto del gualano e se le sue mani fossero ancora troppo tenere, e non munite di promettenti calli». 
Proviamo dunque a immaginare cosa andava in scena ogni 15 agosto nella piazza Orsini, proprio davanti al Duomo e sotto le finestre del primo ufficio di collocamento, inaugurato nel 1949: famiglie intere che portavano in mostra i loro ragazzi (resi riconoscibili da un fazzoletto legato al braccio o una penna di uccello sul cappello di paglia) con l’obiettivo di liberarsi del peso del sostentamento e ricavarne qualche ricompensa in natura; proprietari terrieri, coloni, massari, enfiteuti e chiunque avesse bisogno di un garzone, un bifolco, un pastore, un guardiano di capre o maiali che si aggiravano per la piazza fermandosi a discorrere e contrattare, controllare dentature e mani, prestanza fisica ed età ; sensali che mediavano su modalità  e condizioni di ingaggio; curiosi e faccendieri di vario genere che intervenivano nella contrattazione prendendo le parti ora dell’uno ora dell’altro. 
Una Spoon River del sud
Il teatrino andava avanti per l’intera giornata, e nel gioco delle parti ognuna cercava di strappare il massimo su norme da rispettare e compensi, tipo e numeri di animali da accudire e visite familiari, compiti da svolgere nella tenuta agricola e uscite annuali, luogo dove consumare i pasti e ore di riposo.
Meno folcloristico ma altrettanto drammatico quanto avveniva nelle piazze dei minatori o in quelle dei mietitori. Non solo per lo sradicamento, definitivo o solo stagionale, cui questi lavoratori andavano incontro, quanto per le condizioni di lavoro ancora una volta al limite della schiavitù e per il rischio di malattie o incidenti. Basta fare un giro nel paese da cui siamo partiti, Motta San Giovanni. È qui che una lunga teoria di lapidi dei «caduti di silicosi» fa emergere una Spoon river meridionale fatta di morti silenziose e prolungate nel tempo. Tutte tranne una diventata emblematica, a quelle latitudini: Cosimo Verducci fu una delle tredici vittime nell’esplosione della santabarbara di grisù che fece tremare le fondamenta del paese di Troina, in Sicilia, il 5 dicembre del 1950, giorno di Santa Barbara, appunto. 
«Musi neri» in festa
Le cronache dell’epoca lo descrivono come un quarantaduenne padre di nove figli (il più grande di 18 anni, la più piccola di due) e tutti gli anni la singolare coincidenza di date fa sì che i compaesani, portando in processione la protettrice dei minatori, venerano la santa e commemorano il loro compaesano, simbolo delle migliaia di minatori che la Calabria ha disseminato in tutto il mondo. 
Ancora oggi, eredi di quella epopea e non più «musi neri» addetti a spalare il carbone e morire di silicosi, i minatori calabresi affollano le gallerie dell’alta velocità  ferroviaria. Leggere, per credere, Mugello sottosopra di Simona Baldanzi (Ediesse 2011), inchiesta sulle «tute arancioni» che hanno scavato i 73,3 chilometri di gallerie dell’alta velocità  tra Firenze e Bologna. Quei migranti dell’alta velocità  che, proseguendo la tradizione operaia dei loro padri, ogni estate tornano al paese per la festa del minatore, facendolo rivivere come una volta. 
Prima dei bastimenti
Nelle piazze dell’Appennino molisano, campano, lucano e dell’alta Calabria all’arrivo della primavera si affilavano invece le falci in attesa del caporale. Da lì partivano le «paranze», gruppi di quindici-venti persone che attraverso i sentieri della transumanza pastorale scendevano verso la cosiddetta «piana di cento miglia», dove la Murgia si addolciva in terra piatta a perdita d’occhio i cui proprietari cercavano braccia a buon mercato. Alcuni, convinti di essere in quella che chiamavano la Puglia alta, in realtà  si fermavano un po’ prima, nei latifondi della Basilicata. Qui, in quella che potremmo definire l’America prima dell’America tanto intenso era il fenomeno migratorio ancora prima che «i bastimenti» cominciassero a esportare italiani all’estero, i braccianti si fermavano per l’intera stagione della mietitura. Un’eco di questa epopea da sud a sud l’ascoltiamo rileggendo una perla dimenticata della letteratura italiana del ‘900 appena riportata alle stampe da Donzelli, Le terre del Sacramento di Francesco Jovine. Le condizioni di vita e di lavoro erano ai limiti della sopportabilità , non tutti riuscivano a sopravvivere e ogni tanto qualcuno veniva lasciato a dormir sepolto in un campo di grano. 
Il calvario delle Puglie
Un contadino-operaio lucano di San Fele, intervistato in un vecchio libro di uno studioso di cultura orale del salernitano, Giuseppe Colitti, L’altra America (Edizioni scientifiche italiane, 1991), racconta «il calvario delle Puglie» nell’immediato dopoguerra: «Vedevo le paranze che prendevano dalle Puglie e salivano sopra: erano stanchi, avevano già  fatto un mese, quaranta giorni di mietitura, e ognuno di quelli portava tre o quattro falci, se mai ne spezzavano una; e mietevano, come mietevano! La notte li vedevi dormire a terra… E si mangiava poco e male, in quell’epoca. Eppure mietevano». Un’altra contadina lucana aggiunge: «Erano trattati malissimo. La notte dormivano fuori, scalzi, li ho visti io. Ti facevano veramente pena». Non di rado qualcuno non faceva ritorno. 
Se qualcuno, leggendo queste storie, pensa di rivivere un déja vu, non pensi al passato, ma piuttosto al presente. È ciò che accade nella cronaca di tutti i giorni, e continua a ripetersi nelle nuove piazze della schiavitù migrante. Oggi si chiamano piazzole, ed è tutto dire.


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